Notizie tratte da: Sandra Petrignani # Addio a Roma # Neri Pozza Vicenza 2012 # pp. 336, 16,50 euro., 6 marzo 2013
Notizie tratte da: Sandra Petrignani, Addio a Roma, Neri Pozza Vicenza 2012, pp. 336, 16,50 euro.[…] Sergio Citti, giovanissimo imbianchino dalla fedina penale non troppo pulita, detto “er Mozzone” o “er pittoretto della Maranella”, […]
Notizie tratte da: Sandra Petrignani, Addio a Roma, Neri Pozza Vicenza 2012, pp. 336, 16,50 euro.
[…] Sergio Citti, giovanissimo imbianchino dalla fedina penale non troppo pulita, detto “er Mozzone” o “er pittoretto della Maranella”, […]. (p. 16)
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Alberto Burri […] viveva nello studio prestatogli da un amico al 17 di via Margutta, con grandi vetrate e umidissimo, perché ci pioveva dentro. (pp. 17-18)
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[…] Al premio Strega nel ’52 […] Nel gioco delle parti, infatti, tornava utile contrapporre Gadda al comunista Moravia […]. Gadda […] in una lettera privata al riverito e temuto critico Gianfranco Contini accusò il contendente di complottare alle sue spalle e di avere il «cervello di un autentico deficiente». (p. 19)
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Né Gadda né Calvino si aggiudicheranno mai lo Strega, come neppure Pasolini. (p. 20)
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Giovanna Bemporad […] si era dichiarata provocatoriamente lesbica durante il fascismo, ma poi sposò il senatore Giulio Cesare Orlando, portava i capelli scurissimi a caschetto e indossava immancabili giacche redingote, nere d’inverno, bianche d’estate: «la nostra George Sand» la definì il pittore Fabio Mauri, fratello di Silvana […]. (p. 23)
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[…] Caproni, Bertolucci e Pasolini si trovarono ad abitare nello stesso quartiere, Monteverde, e dal ’59 al ’63 Pier Paolo [PASOLINI] prese addirittura casa in via Carini al 45, stesso palazzo di Attilio [BERTOLUCCI], e si affezionava ai suoi giovani figli, il piccolo Giuseppe e il più grande Bernardo che avrebbe mosso con lui i primi passi nel cinema, sul set di Accattone; proprio Bernardo che, quando Pasolini aveva bussato la prima volta a casa loro, un giorno del ’51, cercando Attilio Bertolucci, gli aveva chiuso la porta in faccia scambiandolo, dai vestiti, per un poco di buono. E il padre bonariamente l’aveva rimproverato spiegandogli: «Ma no, quello è un grande poeta!» (p. 24)
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[…] Al Circolo Artistico di via Margutta, un bar che non chiudeva mai e dove andava e veniva gente di tutti i tipi, […] Turcato […] verso mezzogiorno, in inverno, girava con un vecchio loden sopra il pigiama e con le pantofole ai piedi alla ricerca di un prestito di cinquanta lire per comprare il cappuccino all’amata Oretta Fiume, ex diva dei telefoni bianchi. Se non aveva il cappuccino al risveglio gli faceva tremende scenate e se lui tardava a tornare gliele faceva lo stesso, ma di gelosia. Giulio invece non vedeva l’ora di ributtarsi a letto fra le lenzuola nere, che così non si vedeva quanto poco venivano lavate. (p. 25)
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SFrenato Guttuso – così lo ha soprannominato lo scultore Mazzacurati […]. (p. 26)
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[…] Resta nella leggenda un altro avvenimento, la festa mascherata anticlericale che nella casa-studio di via Margutta un ventottenne Consagra organizzò il 20 settembre del 1848. Con l’immancabile Turcato, di dodici anni più vecchio di lui, e con un Mario Mafai che aveva superato i quarantacinque, si mise a confezionare e istoriare a disegni fallici tiare e mitre papali e a tappezzare le pareti di disegni osceni e blasfemi. […] Sembra che il pittore italoamericano Salvatore Scarpitta fosse il più scatenato: ballò alla russa – la madre era russo-polacca – passando dal saltarello al boogie-woogie e cantando in varie lingue; di lì a due anni fu lui a ispirare Il barone rampante a Italo Calvino col racconto di una personale avventura infantile, quando a dodici anni aveva battuto il record di permanenza sugli alberi e la cosa aveva fatto scalpore. Erano a cena alla trattoria Menghi. La festa mascherata, comunque, di osceno ebbe solo i disegni. Racconta Pirro: «Clotilde Scarpitta eseguì senz’arte la danza del ventre; nessuna delle ragazze si denudò: si vide soltanto il torace villoso di Consagra e la pancia rotonda di Mafai. Non un seno uscì dai reggipetti». Eppure scoppiò uno scandalo, si parlò di orgia. Consagra e Turcato furono convocati nella sede del Pci in via delle Botteghe Oscure e severamente redarguiti. Poi tutto fu messo a tacere. (p. 28)
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Turcato […] Consagra […] avevano caratteri opposti: «Io tetragono testardo, Turcato delicato estroso divertente. Lui la fantasia trasgressiva, io l’orgoglio spinoso. Giulio la simpatia ragionevole e irragionevole, io l’antipatia irriducibile». […] Togliatti […] definì «orrori, cose mostruose» le loro opere, come quelle degli altri astratti, e in particolare «scemenza» uno dei quadri più commoventi e significativi di Turcato: quel Comizio del ’49 […]. (p. 29)
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Suso [CECCHI D’AMICO], veramente si chiamava Giovanna, ma da piccola avevano cominciato a chiamarla “susino”, chissà per quale motivo, ed era rimasta Suso. (p. 30)
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[…] mostra di Pablo Picasso alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna, la Gnam, fortemente voluta dalla direttrice Palma Bucarellli e inaugurata il 5 maggio del 1953 fra mille polemiche. Era la prima volta che Picasso esponeva in un museo italiano […] è un uomo piccolo ma molto proporzionato, si muove con rara grazia, è magro, agile, molto sensuale. Il viso è formidabile, lo sguardo scurissimo indimenticabile, le lunghe rughe che gli chiudono fra due parentesi ironiche le narici e la bocca fino al mento lo rendono un idolo a metà fra il buffone e il saggio. (pp. 32-33)
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[…] Giorgio De Chirico, che ha una polemica tutta sua contro l’«Amazzone delle Croste» come soprannominerà la Bucarelli, colpevole di non apprezzarlo e non acquistarlo abbastanza […]. (p. 34)
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[GIORGIO] De Chirico […] con la cravatta nera che ha adottato da quando è morto Savinio [IL FRATELLO]. Li chiamavano i Dioscuri. (p. 35)
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Lo studio [DI GIORGIO DE CHIRICO] è all’ultimo piano dell’attico a piazza di Spagna. Ha vetrate panoramiche, ma il pittore preferiva non subire distrazioni e teneva le tende abbassate, mentre la luce pioveva direttamente da un lucernario sul suo cavalletto. (p. 36)
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Ingeborg Bachmann […] [e] l’amico musicista Hans Werner Henze […] nelle lettere che si scambieranno per tutta la vita Henze la chiama Zerbinetta, Sweetie, Quercia, Puppella, Adorabile, cancerina – era nata il 25 giugno del ’26 – Musicus, anatra selvatica, scimmietta, colombella, ragazza color pastello […]. (p. 43)
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Palma Bucarelli, «Palmina degli stracci», come non mancherà di soprannominarla De Chirico. (p. 48)
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La Dolce Vita […] quella che La Capria ricorda così: «Ci si dava appuntamento dopo la mezzanotte, all’una, alle due, come fosse un orario normale. A quell’ora a via Veneto c’era un viavai di gente di tutti i tipi, un fiume scintillante che scorreva tra i tavoli dove sedevano i più noti attori del cinema, artisti, produttori, dive e divette». Ed Eugenio Scalfari: «… giornalisti, scrittori, artisti. Vitelloni con un pizzico di snob. Molto voyeurs. Molto indolenti. Alquanto sciroccosi». E Suso Cecchi D’Amico: «Eravamo quattro amici al bar, ci divertivamo. E intanto, senza programmarlo, facevamo il cinema italiano» (p. 48)
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Alla libreria Rossetti, verso Porta Pinciana, che comunque era aperta la sera fino a tardi, andavano un po’ tutti. Vi stazionava nell’unica poltrona Cardarelli e «intralcia non poco il commercio con le sue battute e più ancora con i suoi cupi silenzi, che mettono a disagio i clienti» raccontava Flaiano, ma «Rossetti ha l’aria di non aversela a male, anzi ci si diverte». Il poeta, vecchio e malato, portava sempre il cappotto anche d’estate, e il basco a volte sì a volte no. Oppure sedeva al Caffè Strega, dall’altra parte della strada, biascicando pavesini a un tavolo sotto le finestre della pensione in cui viveva. (p. 49)
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Federico Fellini […] ama disegnare, ovunque, sempre. Mughini conserva un foglio autografo istoriato da Fellini con tette e culi femminili in cui il regista prese questo appunto: «Da sempre un foglio di carta bianco, un tovagliolo, la tovaglia dei ristoranti, quella di casa no, perché Giulietta me lo impedisce, hanno esercitato e continuano ad esercitare un fascino un’attrazione irresistibile e subito cerco una penna una matita qualunque cosa con cui possa subito scarabocchiare una faccia un profilo, un seno un bel sederone degli occhi di donna che mi scrutino fissandomi». Aveva una vocina sproporzionata alle sue dimensioni imponenti e quando, risalendo via Veneto magari, incontrava un amico, gli gridava con quella voce chioccia, insinuante: «Ciao caro, come va l’uccello?»
Quello di scrivere e disegnare sulle tovaglie di carta era un vezzo dei tempi: lo facevano i pittori da Menghi, lo faceva Flaiano per appuntarsi le sue celebri battute. Una volta, in via della Croce alla Fiaschetteria Beltramme, dove era di casa, detta “Cesaretto” dal nome del garzone che ne divenne il gestore, scrisse: «Fra una coscia di pollo e la cicoria, da Cesaretto aspetto la gloria». (pp. 49-50)
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[…] Nata ufficialmente il 3 gennaio del 1954, una domenica, la televisione […] La cosa sensazionale per il momento era lo stipendio delle prime annunciatrici: fra le ottante e le centoventimila lire mensili. […] la prima invidiata “signorina buonasera”, Fulvia Colombo, che compare in apertura e chiusura delle trasmissioni. «Alta, con un sorriso misurato, d’una grazia un po’ fredda, un po’ sofisticata» la racconta Enzo Biagi che l’ha incontrata in anteprima per il settimanale Epoca. Naturalmente bionda, «lineamenti regolari» e, naturalmente, «vorrebbe fare l’attrice». (p. 56)
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[…] L’11 giugno del 1944 un gruppo ristretto di letterati, giornalisti, appassionati d’arte, non più di quindici, aveva cominciato a riunirsi in un appartamento di quattro stanze in viale Liegi al numero 52, quartiere Parioli, per tornare a dibattere argomenti culturali dopo la barbarie della guerra. Si autodefinirono Amici della Domenica perché si vedevano sempre di domenica e i padroni di casa, Goffredo e Maria Bellonci, scrittrice di romanzi storici lei, critico letterario lui, si facevano prestare sedie e poltrone dalla madre di Maria che abitava al di là del viale. C’erano Guido Piovene e Gorresio, Bontempelli e la Masino, Palma Bucarelli e Monelli, Carlo Bernari, Alberto Savinio, Guglielmo Petroni... Presto si aggiunsero Macchia, Ungaretti, Mino Maccari che movimentava gli incontri con battute diventate celebri: «Ho poche idee ma confuse». «Non so contro chi credere». Cose cosí. La coppia Morante Moravia si aggregò alla fine del gennaio ’45, il compositore Goffredo Petrassi un anno dopo. Non c’erano abbastanza tazzine per tutti, soltanto nove, da tè, bianche e celesti. Venivano rapidamente risciacquate fra un ospite e l’altro. Ma non mancavano mai due torte preparate da Maria la mattina presto, quando il gas aveva più forza, una alla crema, una al cioccolato. L idea di trasformare quel salotto nella giuria di un premio letterario venne a lei: «una giuria vasta e democratica che comprendesse tutti i nostri amici... confermava il nuovo acquisto della democrazia ed era intonata al nostro stato d’animo». […] Si trovò lo sponsor in Guido Alberti, giovane industriale che in seguito si sarebbe divertito a fare anche l’attore. Con la sua famiglia d’imprenditori - producevano a Benevento un liquore molto diffuso, lo Strega - offrì la non disprezzabile cifra, per i tempi, di duecentomila lire e il premio Strega diventò subito il più popolare in Italia perché il più seguito dalle cronache, […]. La prima edizione, nel ’47, la vinse Flaiano con Tempo di uccidere. «Chi soffrì nel ventennio voti per Ennio, nel caso inverso ogni italiano voterà per Flaiano» era stato lo slogan "elettorale" orchestrato probabilmente dall’amico Maccari. […] Nel ’54 il premio, per il romanzo d’amore e gelosia Lettere da Capri, era andato a Mario Soldati senza troppi mugugni. Infatti Soldati, per il suo carattere solare, era simpatico a tutti, anche se al momento della premiazione nessuno riusciva a trovarlo: fu scovato in trattoria a mangiarsi una bistecca. E questo la dice lunga su che tipo fosse. «Mitemente fraterno» lo giudicava Pisolini. «L’unico che abbia amato esprimere, costantemente e sempre, la gioia di vivere. Non il piacere di vivere, ma la gioia» (Natalia Ginzburg). […] «È stato un dispensatore d’allegria. Nel senso dell’allegria vera, quella che qualche essere raro riesce a diffondere intorno a sé. Lo scrittore torinese aveva infatti il potere di alleggerirti lo spirito. Non era fatuo. Era alacre e inquieto» (Nello Ajello). […] Flaiano, che nel Diario notturno lo paragona a «una farfalla»). (pp. 56 – 58)
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[…] Flora Volpini […] Anna Banti […] La Bellonci era stata soprannominata dalla Banti "l’Aquila a due tette" e "Bruttonci" dalla Volpini. Pure Flora abitava in viale Liegi e tentò di lanciare un suo salotto. Ne racconta malignetta l’esordio Leonetta Pieraccini: «Leonor Fini consiglia cinicamente di fare delle torte e dei sandwiches molto piú ricchi e gustosi di quelli della rivale. Il consiglio è stato seguito in pieno e il risultato ha dimostrato il senno della consigliera. Tutta la Roma dei letterati, dei giornalisti, degli artisti era presente, le tavole imbandite senza economia erano spazzate come da un’orda di famelici, e la padrona di casa ha conquistato di colpo la simpatia e l’amorevolezza di tutti i presenti». […] Bucarelli, presente ai ricevimenti di Maria Bellonci come di Flora Volpini, che considerava «magari un po’ volgaruccia, ma comica, simpaticissima e molto intelligente». Però il salotto Volpini non dura a lungo o per lo meno s’imbarbarisce quasi subito, […] Le sue feste degenerano in eccessi che con la cultura e con l’arte hanno poco a vedere, come quando Paola Masino, «alternando un’apparente grazia a una reale sguaiataggine», intrattiene un gruppetto di persone sdraiata sul letto della padrona di casa e qualcuno tenta di palpeggiarla. Lei risponde spiritosamente com’era nel suo carattere: «Non voglio nessuno. Siete noiosi con questa costante voglia di fare all’amore... semmai mi piace Moravia». Moravia era a due passi, seduto in poltrona, nascosto dietro un giornale. Si ode la sua voce secca: «Non mi piacciono queste dichiarazioni in pubblico». (pp. 62-63)
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Salvador Dalí […] Nel diario di Leonetta [PIERACCINI] troviamo un’ingenerosa, ma anche fine osservazione: «Questo Dalí non interessa come pittore, ma è in realtà un tipo fantastico che ha inventato qualche cosa: prima di tutto se stesso». (pp. 63-64)
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Elsa Morante […] A diciotto anni comincia a scrivere per i bambini sul Corriere dei Piccoli, e dopo qualche tempo se ne va di casa dove le liti con la madre, le scenate, le urla sono diventate intollerabili. Vive di lavoretti e di espedienti in camere ammobiliate, tenta delle coabitazioni. Finché mette su un appartamento tutto suo in via del Corso, verso piazza Venezia. Il fratello Marcello l’ha descritto così: «Di quella casa mi piacque tutto: la luce, la posizione, la camera con il letto d’ottone, lo studio-salotto in cui lei sapeva così bene accoppiare il rigore stilistico con la fantasia; guardando il suo tavolo potevo per un attimo immaginarla nella sua attività creativa, finalmente libera dalle schiavitù familiari». Marcello è attratto da un oggetto che non era comune trovare nelle case private: il cestino della carta straccia, «davvero grazioso, così fiorito e civettuolo». (pp. 72)
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Moravia […] di Guttuso fu buon amico, […]. «La compagnia dei pittori mi piace per lo stesso motivo per cui preferisco la pittura alla letteratura» diceva in modo un po’ paradossale, ma acuto. «Hanno sempre qualcosa al tempo stesso di artigianale e di creativo, mentre lo scrittore che non sia geniale è spesso un piccolo borghese. Insomma, il pittore è sempre artista, lo scrittore solo qualche volta». (pp. 72-73)
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[ELSA MORANTE] Ha molti capelli bianchi, nonostante la giovane età (se li tingerà in seguito), gli occhi viola miopi e trasognati, un viso largo da gatta, un corpo molto femminile, aggraziato. […] La cosa che la faceva uscire dai gangheri più di ogni altra era essere chiamata "la signora Moravia". Succedeva qualche volta negli alberghi, ed erano scene da far crollare i muri. Morante Moravia bisticciavano spesso e clamorosamente, in privato e in pubblico. Spesso lei umiliava il marito davanti a tutti, lui un po’ reagiva, ma alla fine subiva imbronciato. […] Erano, la maggior parte delle volte, scontri letterari: Elsa era competitiva e non sopportava che si potessero avere giudizi sui libri e gli scrittori diversi dai suoi. E non sopportava di mentire. Diceva la verità a tutti. Le capitava di rompere amicizie per questo, anche grandi amicizie, come quella con Pasolini. Una volta era seduta con Moravia da Rosati, in piazza del Popolo, e vide Edoardo Cacciatore che si stava avvicinando. Avevano appena ricevuto una sua raccolta di versi che a Elsa non era piaciuta. Moravia la pregò di dirgli che non l’avevano ancora letta. Ma lei improvvisamente si sbracciò per chiamare al loro tavolo Cacciatore e gli spiattellò in faccia quel che pensava, che insomma aveva scritto delle bruttissime poesie. Così il poeta si offese moltissimo e smise di salutarli. […] nel ’55 il loro amore si era trasformato in «pura convivenza», da qualche anno non avevano rapporti sessuali e, alla vigilia di un viaggio di Alberto in America, Elsa gli confessa di essersi innamorata follemente di Luchino Visconti, la cui omosessualità non gli impediva di vivere brevi amori anche con donne. La relazione clandestina va avanti già da parecchi mesi. Luchino regala a Elsa un gufo in gabbia, Elsa regala a Luchino un gatto di nome Arturo. […] Quando però Elsa crede che sia venuto il momento di lasciare il marito per trasferirsi nel palazzetto di Visconti, Luchino, noto per la sua volubilità, s’infatua di Maria Callas […]. Moravia prova un sentimento molto aggressivo nei confronti della moglie: «Sì, ci furono dei giorni in cui avrei desiderato ucciderla. Non separarmi da lei, che sarebbe stata una soluzione ragionevole, ma ucciderla, perché il nostro rapporto era così stretto, così complesso e in fondo così vivo che il delitto mi pareva più facile della separazione». (pp. 73-77)
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Gadda – per gli amici Gaddus o, semplicemente, l’Ingegnere. (p. 80)
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Il 2 ottobre del 1955 esce finalmente il primo numero dell’Espresso formato "lenzuolo", […]. La sede è in via Po al numero 12, in un elegante villino anni Venti di cui la redazione occupa all’inizio solo quattro stanze al piano terra. Sono in nove […]. Arrigo Benedetti è il direttore, Eugenio Scalfari il direttore amministrativo e redattore economico, Antonio Gambino redattore capo. Ed è forte, anzi fortissima, anche la sezione culturale con collaboratori illustri: Moravia per la critica cinematografica, De Feo per quella teatrale, Lionello Venturi per l’arte, Bruno Zevi per l’architettura, Massimo Mila per la musica, e Geno PampaIoni, che fu poi sostituito da Paolo Milano, per la critica letteraria. […] Ma il primo numero è un successo superiore alle aspettative: oltre centomila copie vendute, che poi si assesteranno fra le sessanta e le settantamila nonostante il boicottaggio pubblicitario di Confindustria, che arrivò persino a diramare l’invito a non acquistare le macchine da scrivere Olivetti, leader sul mercato. Adriano Olivetti, infatti, era l’editore di maggioranza del settimanale (settanta per cento del capitale sociale) […] un personaggio difficile da classificare, «il visionario italiano per eccellenza, lo spirito nuovo che osava affacciarsi nella gabbia, confusa, mediocre, più che mai furbetta, che era ed è questo Paese», descritto così dal poeta e romanziere Giorgio Soavi che ne sposò la figlia Lidia. (pp. 85-86)
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Nell’inverno del 1956 a Roma nevica. Flaiano è infastidito: «Il disgustoso spettacolo dei vecchi che, uscendo dalla scuola, tirano le palle di neve ai bambini». […] Immaginiamo una mattina qualsiasi di questo gelido inverno: una signora elegantissima scende dal taxi che ha faticato a trovare. Indossa una splendida pelliccia e, per una volta, scarpe chiuse decoltè, naturalmente col tacco alto e sottile: in genere calza estate e inverno scarpine che sono quasi dei sandali, fermate da un cinturino sul tallone e aperte anche davanti a lasciar vedere le unghie smaltate. È un suo vezzo. Come quello di non portare gli occhiali pur essendo miope. […] Sarà la prima a usare le lenti a contatto, ma per ora non le hanno inventate, almeno in Italia non sono ancora arrivate. […] Ha un nome molto comune, Maria Vittoria Rossi, detta Mariú; […] Per tutti, anche per se stessa, ormai è Irene Brin, […] che si autodefinisce «specialista in frivolezze» […]. Irene-Mariú fonda un nuovo genere e nelle redazioni, prendendola a esempio, i capiservizio chiedono ai loro redattori: «Scrivimi una brinata» intendendo un pezzo di costume brioso, farcito di citazioni, un po’ velenoso. (pp. 90-91)
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«È curioso: a poche persone ho pensato tanto negli ultimi mesi come a questo bruttissimo ometto», scrive Cristina Campo a Leone Traverso, l’intellettuale fiorentino a cui è stata fidanzata prima di trasferirsi a Roma con la famiglia nel ’55. Il bruttissimo ometto è lo scrittore calabrese Corrado Alvaro, […]. «Fisicamente fatto come un contadino del sud, con qualcosa di chiuso, di irrisolto e di dolente, come se si portasse dietro la nobile depressione del suo paese d’origine» lo descrisse Moravia. (pp. 97-98)
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Cristina Campo […] Per il suo onomastico 1956 il padre le regala una Fiat 600 […] (p. 100)
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Nicola Chiaromonte […] Per dirla con le parole del giornalista e senatore Enzo Bettiza […]: «Allora non perdonavano a Chiaromonte il fatto che Chiaromonte non perdonasse niente a nessuno». Considerava Gramsci: «Un farraginoso studioso di provincia»; Fortini: «Un corruttore di giovani e un uomo sleale»; Pasolini: «Un pedagogo petulante ed equivoco, un cattomarxista tutto bandiere rosse e rigurgiti parrocchiali». (p. 101)
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Com’era Calvino a trent’anni? Cesare Pavese l’aveva paragonato a uno scoiattolo per i denti da roditore e per la capacità di sgattaiolare via quando una situazione lo metteva in difficoltà. Era spesso a disagio e sulle difensive. Secondo Elsa de’ Giorgi «non sempre si stimava ma sempre si proteggeva. C’era molta infanzia in tutto questo, un’adolescenza inconsumata» e «quella sua vistosa difesa rivelava un terrore infantile di essere snidato, sorpreso a nudo nella fragilità di una timidezza che rischiava di mandare all’aria il fiero puntello di austerità cui sembrava aspirare accanitamente e nello stesso tempo il timore di essere preso definitivamente sul serio». Fisicamente lo descrive dimesso, «vestito in una convenzionalità da piccolo burocrate, ben lontana dalla nonchalance trasgressiva bohémienne e spavalda degli intellettuali romani di allora, specie giovani. La ruga che s’imponeva fra gli occhi neri, mobili e attenti, conferiva una certa severità al viso stretto da uccello». Il carattere «sempre insoddisfatto e inquieto». Usava spesso due intercalari: "perbacco" e "menate" per dire "sciocchezze". […] Una grande amica di Elsa, Anna Magnani, non lo aveva in simpatia. Lo definiva «una siringhetta de veleno». E una volta l’aveva messa in guardia: «Se strafoga dentro la sua intelligenza, ha paura de perdene un grammo; se l’amministra come ’n ragioniere, pesa le parole col sospetto che qualcuno scopra che non è grande come scrive e ti odia. Zagaia, non te ne sei accorta? T’invidia proprio perché t’ammira ed è innamorato, ha paura che lo lasci. Ma sta’ attenta». Anna parlava con cadenza spiccatamente romana, "zagaiare" è verbo dialettale per "balbettare", difetto che affliggeva lo scrittore ligure dall’infanzia. (p. 107)
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Italo Calvino […] sposato con l’argentina Esther Judith Singer, detta Cichita […]. (p. 110)
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Elsa Morante era una grande appassionata di musica classica. (p. 113)
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Pasolini considerava l’astrattismo una «proterva forma della mancanza dell’animo», non capiva neanche Picasso, rivendicava il realismo come necessità di «stare dentro l’inferno, vicino al popolo». (p. 114)
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Natalia Levi [GINZBURG] viene assunta nella redazione romana dell’Einaudi. […] vive in Prati e va in ufficio in bicicletta. […] Cesare Garboli, […] diceva di Natalia: «Possiede antenne misteriose che captano gran parte dei sentimenti profondi della gente». E Natalia di Giulio: «È stato un rabdomante e un nocchiere» dalla «voce nasale, legnosa, timida e beffarda». (pp. 115-117)
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Quando [UMBERTO] Saba veniva a Roma, e lo faceva spesso, non andava ospite dalla figlia, ma a casa Debenedetti. Antonio Debenedetti, figlio di Giacomo e di Renata, che quando il poeta morì aveva vent’anni, ne ricorda la «voce incredibile, diversa da tutte. Era sul serio il belato di una "capra dal volto semita": mai autoritratto nacque da più fisiologica, veritiera ispirazione. Svogliato, fascinoso, prossimo a tradire chissà quale affinità con l’Oriente, quel belato mi chiamava all’improvviso: "Stupidello!". Questo era infatti il nome che Saba mi riservava, "Stupidelo", elidendo una delle due elle e sputando un po’ nel cannello della pipa stretta fra i denti». E ne ricorda le mille stranezze. Come quando in una sera di pioggia era uscito dal loro appartamento in via del Governo Vecchio 78 annunciando: «Mi uccido» (con una sola c) e i Debenedetti e altri amici si erano messi a cercarlo per l’intera notte. L’avevano ritrovato sorridente all’alba, mentre sorseggiava un caffè in una latteria di Testaccio. (p. 123)
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[…] il Musichiere, quiz a premi condotto da Mario Riva che morì tragicamente tre anni dopo scivolando in una botola in palcoscenico. (p. 130)
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[…] a Roma, nella sua casa di via Oslavia, il torinese Giacomo Balla […] [SULLA PORTA AVEVA] inciso Pittor Balla. (p. 133)
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Giuseppe Tomasi di Lampedusa, […] molto amareggiato […] da una lettera di Elio Vittorini del ’57 che giudicava il romanzo [IL GATTOPARDO]: «vecchiotto […] incapace di diventare il racconto di un’epoca e della decadenza di quell’epoca» (p. 139)
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Cristina Campo […] aborriva i premi letterari, considerava il parteciparvi un «errore di stile» […]. (p. 141)
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1958 […] Alla mezzanotte del 20 settembre entra in vigore la Legge Merlin […]. Vengono così chiusi più di cinquecentocinquanta bordelli in tutta Italia […]. (p. 143)
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Secchiaroli divenne di lì a poco il modello per il fotografo della Dolce vita felliniana: Paparazzo, cognome che si trasformò in un fortunato neologismo per indicare i fotoreporter persecutori di star, quelli che «quando Liz Taylor viene a Roma, non hanno né fame né sonno» come si definirono loro stessi. Sulle origini della parola circolano diverse spiegazioni. Forse la piú autorevole appartiene a uno dei suoi inventori, Ennio Flaiano che nella Solitudine del satiro l’ha raccontata così: «Ora dovremmo mettere a questo fotografo un nome esemplare perché il nome giusto aiuta molto e indica che il personaggio "vivrà". Queste affinità semantiche tra i personaggi e i loro nomi facevano la disperazione di Flaubert che ci mise due anni a trovare il nome di Madame Bovary, Emma. Per questo fotografo non sappiamo che inventare: finché, aprendo a caso quell’aureo libretto di George Gissing che si intitola Stille rive dello Jonio troviamo un nome prestigioso: "Paparazzo". Il fotografo si chiamerà Paparazzo». Quel libro di viaggio ottocentesco lo stava leggendo Fellini; Coriolano Paparazzo era il proprietario di un albergo di Catanzaro in cui aveva dimorato lo scrittore inglese. Il nome divertì il regista, tanto più che all’amico Flaiano ricordò la parola "paparazze" che nel suo dialetto abruzzese indicava le vongole e trovò azzeccato mettere in relazione l’aprirsi e chiudersi della conchiglia con l’analogo movimento dell’obiettivo fotografico. Da cui il termine "paparazzata". Giulietta Masina ci mise poi del suo spiegando la fortuna della parola con il richiamo onomatopeico a due idee, quella di pappataci e di ragazzi: giovani molesti come zanzare. (pp. 145-146)
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Il musicologo Mario Bortolotto […]: «Di Petrassi avevamo tutti un rispetto reverenziale. Aveva maniere impeccabili, un tono aristocratico leggermente altezzoso, non avresti mai creduto fosse figlio di due bottegai che vendevano alimentari a Zagarolo. Abitava a piazza del Popolo in una casa piena di quadri. […] Mario Praz era adorabile con quel suo giocare teatralmente con la leggenda di menagramo. Una volta m’invitò a vedere la sua famosa casa in una visita guidata, da lui in persona. Mi fece aspettare un’ora seduto in poltrona. Improvvisamente si spense la luce, poi si riaccese e comparve. Disse che si era trattato di un guasto. Ma succedeva troppo spesso, anche con altre persone, per non pensare che la spegnesse e riaccendesse lui stesso, tanto per seminare un po’ di panico e divertirsi alle spalle dei superstiziosi». (p. 149)
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Bobi Bazlen […] Toti Scialoja, che di Bazlen era stato molto amico, una sera dei primi anni Novanta, a casa della poetessa Biancamaria Frabotta, ci raccontò di Bobi. Eravamo solo noi tre e la moglie di Toti, la brillante, acutissima Gabriella Drudi. Noi, Bianca e io, li stuzzicavamo perché ci riferissero vecchi pettegolezzi. Venne fuori di quando Gabriella a piazza del Popolo aveva dato un pugno a Domenico Modugno, reo di aver comprato un Guttuso per la sua collezione di contemporanei, «che vantava anche un primissimo Burri, capite?» […] Mi colpì una cosa stranissima che raccontò Scialoja: «Bobi è morto perché non aveva più la fontana». Quale fontana? «Nel giardino di via Margutta 7 c’era, e c’è ancora, una fontana con l’acqua che scorreva sempre e faceva rumore, come una musica. Bobi aveva bisogno di quella fontana, proprio di quella. Era uno che cercava nei libri "la primavoltità", "il suono giusto". E anche nelle cose. Senza originalità o novità non vedeva valore. Ma poi usava espressioni da ragazzo, tipo "mi sono divertito un mondo e mezzo", diceva spesso così. Quando fu sfrattato dalla casa di via Margutta, era disperato. Cercò un altro posto simile, ma forse lo cercava identico, anzi ricercava quello stesso posto; naturalmente non lo trovò». Così, a sessantatre anni, morì a Milano in una stanza d’albergo, nel ’65. Di cuore. Si è detto anche suicida, forse; tanto perché la sua fine fosse avvolta nel mistero come tutto il resto. […] Il giorno in cui morì era andato a sbattere contro una vetrata mandandola in pezzi. E gli era già successo anni prima, finì in ospedale quella volta. Era distratto. Gli piaceva la parola naufragio. Gli piacevano proprio i naufragi, parole a parte, quelli reali e quelli metaforici. […] Bobi secondo Moravia «era piccolo, molto brutto, con una spalla più alta dell’altra». Elsa Morante diceva che aveva speso una fortuna in terapia analitica per ottenere l’unico risultato di rendere la spalla destra più alta della sinistra, mentre prima era il contrario: la sinistra più alta della destra. […] A Moravia non era simpatico, è chiaro. Era un amico di Elsa, ammaliato da lei e «frequentava spesso coppie in pericolo di separarsi e si dedicava con abnegazione alla vita altrui intrappolata nei vincoli coniugali». (Renata Debenedetti lo chiamava: «Il nemico delle mogli».) […] Sfuggente già nel corpo, asimmetrico: il ritratto che gli ha fatto Carlo Levi, un occhio un po’ più basso dell’altro, viso scarno, bocca perversa, non somiglia alle rarissime fotografie, dove lo si vede con gli occhiali e ha un’espressione addolcita da un abbozzo di sorriso, viso triangolare ma più in carne. […] Passava la maggior parte del tempo a leggere e non distingueva fra autori vivi e autori morti. Li citava in continuazione come li avesse visti, la sera prima, i vivi e i morti. […] Valentino Bompiani lo tratteggiò così: «È tutto cultura e si direbbe non contenga altro dentro di sé. Ma qualche segno avverte che non è vero: forse legge per non pensarci. Si agita sulla sedia come avesse la coda». Coltissimo, poliglotta, di un’intelligenza che si esprimeva aforisticamente folgorando l’interlocutore e sistemandosi in frasi lapidarie da passarsi oralmente. Voleva pervicacemente restare inedito, anche come traduttore usava nomi fittizi o le semplici iniziali. La frase che meglio lo rappresenta, la più famosa: «Io credo che non si possa più scrivere libri. Perciò non scrivo libri. Quasi tutti i libri sono note a piè di pagina gonfiate in volumi. Io scrivo solo note a piè di pagina» è un autoritratto […] Essere scrittore senza libri, ha senso? Per capire la sua libertà intellettuale può bastare questo giudizio a caldo su Ladri di biciclette: «Credo sia il punto più basso nel quale sia caduta l’Italia - è piaciuto a tutti, persino ai comunisti che hanno scambiato Stalin con De Amicis, e tutta Roma, compresa gran parte dei miei amici, ha pianto disperatamente». (pp. 150-154)
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[…] Nel 59, […] alla Gnam […] arriva il Grande Sacco di Burri. […] Il prezzo si aggirava sui due milioni di lire pari a circa venticinquemila euro di oggi. […] Il senatore comunista Umberto Terracini […] definisce il quadro in questione: «vecchia e sdrucita tela da imballaggio che, sotto il titolo Grande Sacco, è stata messa in cornice da tal Alberto Burri». (p. 157)
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Flaiano: «[…] Quando un popolo dà più "artisti" che geometri o ragionieri o bravi impiegati, l’equilibrio è rotto, e non si ride più». […] E, soprattutto: «Il Cinema è un’industria, o almeno tutti vorrebbero che lo fosse, dimenticando che le poche opere belle del cinema italiano, quelle che hanno fatto parlare dell’esistenza di un cinema italiano, sono state fatte contro l’Industria, contro i produttori, e soprattutto contro il pubblico. Il giorno che il Cinema, in questo Paese, sarà veramente un’industria, gli scrittori potranno tornare a raccontarci i loro primi amori. Non serviranno più a niente, nemmeno a fare film di protesta». (pp. 161-162)
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Alberto Arbasino […] al ritorno ritrova il suo amico e coetaneo Goffredo Parise […]. Ha solo un anno di più rispetto ad Alberto, ma fa valere la sua anzianità e dispensa consigli: così lo convince a rivestire di legno (finto) la nuova casa in via Giulia, «come l’interno di una scatola di sigari». Era una sua mania, a un certo punto scoprì un bravissimo artigiano e fece rivestire anche la casa della sua compagna, Giosetta Fioroni, in via delle Zoccolette, di un delicato, elegante e protettivo finto bambú. (p. 162)
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[…] Carlo [ARGAN] le confessa un punto di vista opposto: «In fondo a me ha sempre dato fastidio pensare che i quadri siano fatti da qualcuno e che quel qualcuno si permetta oltre tutto di avere una vita». (p. 163)
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Vittoria Guerrini - vero nome di Cristina Campo – […] Nel ’59, […] scrive a Draghi: «Vivere, certo, mio caro amico. Non c’è nulla di più - nulla di meno - da fare. Quanto ad esser felici, questo è il terribilmente difficile, estenuante. Come portare in bilico sulla testa una preziosa pagoda, tutta di vetro soffiato, adorna di campanelli e di fragili fiamme accese; e continuare a compiere ora per ora i mille e oscuri pesanti movimenti, della giornata senza che un lumicino si spenga, che un campanello dia una nota turbata». (p. 165)
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Dacia Maraini […] Adriana Pincherle, sorella artista di Alberto, ricordava di averla avuta fra le sue alunne al corso di disegno delle medie, in un collegio fiorentino piuttosto esclusivo, […]. La nonna delle ragazze Maraini, Yoï Pawloska, scriveva romanzi ai primi del Novecento e la nonna della nonna, Cornelia Berkeley, scriveva libri per bambini. […] Dacia, in particolare, passava il tempo leggendo, spesso rinunciava ad andare a ballare per rimanere a leggere e a scrivere. A scuola la prendevano in giro perché teneva sempre un libro sotto il banco, e poi magari - seguendo il suo spirito anarchico, insofferente di routine scolastiche - non studiava la lezione e collezionava brutti voti. […] Moravia la definirà molti anni dopo, parlandone ad Alain Elkann nel libro-conversazione sulla propria vita, «dolce e affettuosa» con un «carattere di tipo inglese» e un invidiabile «self-control». […] Moravia ricorda una Dacia liceale scontenta che gli porta un racconto per Nuovi Argomenti. Si è fatta bocciare alla Maturità e ancora non sa cosa fare di se stessa – […]. Moravia [e la MARAINI] [….] Adesso i tempi sono maturi per entrambi perché fra loro scocchi qualcosa. «M’innamorai nell’unica maniera in cui sono capace d’innamorarmi: lentissimamente, cominciando quasi con l’indifferenza e finendo con la passione» ha raccontato lui a Elkann. Dacia si analizza cosí: «Certamente per me agiva il fascino del grande scrittore, coltissimo, straordinario conversatore, ma devo dire che era un uomo giovane di spirito e di corpo, pieno di allegria e di voglia di vivere, rispettoso della libertà altrui e incapace di alcuna prepotenza. È questo carattere che mi ha innamorata. Avevamo gli stessi gusti per i cibi semplici, per i viaggi, per la lettura e abbiamo vissuto bene insieme per anni». Lui ancora non aveva la patente […].(pp. 165-168)
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Willem de Kooning […] Era molto attraente, beveva come una spugna senza mai sembrare ubriaco. (p. 172)
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[…] Twombly le era antipatico con le sue arie aristocratiche e quel vezzo di andare in giro a piedi nudi, consapevole del suo fascino. Aveva gli occhi distanti e il naso a becco, appariva elegante pure nei jeans consumati, grazie alla magrezza dinoccolata. Che razza di nome era Cy? Non era un nome, era l’abbreviazione di Cyclone, come negli Usa chiamavano un certo eroe del baseball per la velocità dei suoi lanci, ma anche il padre di Twombly era un ciclone a baseball e lo avevano soprannominato così, e lui non giocava a baseball, ma gli piaceva rendergli omaggio. (pp. 172-173)
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Il 13 febbraio 1960 Fred Buscaglione si schianta contro un camion all’alba, ai Parioli, con la sua Ford Thunderbird decappottabile color ciclamino, da lui ribattezzata: «Criminalmente bella». (p. 177)
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Paolo Zavallone […] veramente si chiama Zavalloni, ma in Rai, dove lavorava parecchio, gli avevano suggerito di mettere la "e" al posto della "i" perché: Carosone, Buscaglione, Zavallone... questi erano i tempi. (p. 177)
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[…] Indro Montanelli: «La dolce vita è una vita opaca e triste, dove più che ricercare il piacere si fugge la disperazione. E inesorabilmente vi si ripiomba [...] proporrei che questo film, invece che ai minori di sedici anni come al solito, venisse proibito ai maggiori di sessanta. Perché credo che esso metta più in pericolo l’innocenza dei nostri babbi che quella dei nostri figli». (p. 181)
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Adele Cambria […] la "gazzettiera" come la definiva Elsa Morante [….] Adele [….] quando aveva capito che tipo di ruolo le stava proponendo Pier Paolo in Stella - futuro Accattone - si era un po’ risentita. «Mi sentivo una donna emancipata e lui mi vedeva in quella Nannina, una napoletana carica di figli... Rise del mio sconcerto. Ed era chiaro che avrei accettato la parte». Sul set c’era un’atmosfera piacevole, «a parte quei tremendi coattoni che ci trattavano con sufficienza e scherno. Franco Citti sghignazzava di Pasolini, non aveva nessun rispetto. Povero Pier Paolo, che li mitizzava quei trogloditi!» Anche Elsa sembrava molto felice della sua particina di detenuta, «lei che felice non la vedevi mai e, in quel periodo, era gelosa di Dacia Maraini, pur essendo innamorata di Bill Morrow. Con il marito si spazientiva sempre, gli diceva: "Zitto, cretino", proprio così, e lui abbozzava, aveva un atteggiamento devoto. Poi, quando Morrow morì, Alberto raccontava che doveva imboccarla, perché lei si rifiutava di mangiare». (p. 189)
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[…] al premio Strega di quell’anno, Carlo Cassola che comunque vince con La ragazza di Bube, […] Verrà definito dai neoavanguardisti "Liala della letteratura" e ne resterà offeso. (p. 189)
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[…] [DAL] Dottor Zivago […]: «Vivere significa sempre lanciarsi in avanti, verso qualcosa di superiore, verso la perfezione, lanciarsi è cercare di arrivarci». (p. 194)
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«La poesia è sempre stata questo: far passare il mare in un imbuto; fissarsi uno strettissimo numero di mezzi espressivi e cercare di esprimere con quello qualcosa d’estremamente complesso. Adesso la letteratura tende a dimenticare l’imbuto: si crede che si possa scrivere tutto, si crede che il mare possa essere espresso e comunicato in quanto mare, e non si comunica né mare né niente, solo parole». Con chi ce l’ha Italo Calvino quando inserisce questo inciso, presentando il nuovo romanzo di Natalia Ginzburg, Le voci della sera, alla libreria Einaudi, di via Veneto? È il 1961. (p. 196)
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Flaiano: «Coraggio, il meglio è passato». (p. 197)
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Giovannino Guareschi […] Era anche un ilare caricaturista, […]. Naturalmente, ogni tanto, qualcuno si offendeva. Come quando disegnò Togliatti con tre narici. Da cui il termine "trinariciuti" per i compagni che, secondo lui, dalla terza narice assorbivano acriticamente le direttive del partito in un’«obbedienza cieca, pronta e assoluta». Togliatti rispose definendo Guareschi, durante un comizio, «tre volte idiota moltiplicato tre». (p. 201)
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[…] il 2 luglio il suicidio a sessantadue anni di Ernest Hemingway, che aveva messo fine a un lungo, tormentato periodo di malattia e depressione sparandosi un colpo di fucile. Gli ammiratori italiani rimasero impressionati dal fatto che avesse trascorso la sera precedente cantando una canzone popolare istriana: «Tutti mi chiamano bionda / ma bionda io non sono. / Porto i capelli neri / porto i capelli neri». Gliel’aveva insegnata la grande amica e sua traduttrice Fernanda Pivano durante una vacanza a Cortina. (pp. 201-202)
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[1962] L’assalto fascista si ripeté l’anno successivo alla prima romana, in settembre, del secondo film di Pasolini, Mamma Roma. Lo scrittore usciva dal cinema Quattro Fontane con Laura Betti, ma non si lasciò intimidire e rispose con una mossa di karate. Era una persona cortese e riservata, ma era anche un atleta, che curava meticolosamente il corpo e si allenava con metodo per tenersi in forma e poter giocare regolarmente a calcio. «Pasolini era l’intellettuale più dolce, più delicato, più disponibile che avessi conosciuto» l’ha descritto Maria Antonietta Macciocchi, direttore di Vie Nuove, settimanale comunista […]. E Adele Cambria testimonia un’analoga delicatezza ricordando come, all’inizio della loro amicizia, Pasolini volle rivelarle di essere omosessuale attraverso la "parabola" delle Termopili. Un giorno erano in macchina e all’improvviso le domandò perché i trecento eroi combatterono fino alla morte pur sapendo che sarebbero stati sconfitti. Lei rispose: «Per l’onore di Sparta». E lui: «No, Adele, perché erano amanti, coppie di amanti....» (p. 206)
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«Che cos’è l’arte moderna? È quella che non è antica» aveva scritto [PALMA BUCARELLI] con netta semplicità su La Sera. «Sembra detto per ridere. Eppure quanti capirebbero meglio l’arte del nostro tempo se riflettessero su questa verità così ovvia». (p. 208)
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Mambor e Schifano presero per un periodo a lavorare uno accanto all’altro in uno studio che il secondo aveva affittato dietro piazza Fontana di Trevi: […]. Schifano aveva sempre da ridire sulle cose, sulle abitudini della gente. Non gli andava bene la targa col nome che Renato aveva sulla porta, secondo lui era borghese, per non parlare dei quadri appesi alle pareti: dovevano stare appoggiati per terra uno contro l’altro; e la camicia a scacchi del collega gli faceva orrore: era troppo da pittore. […] Tano Festa un giorno arrivò ad accoltellarlo, Mario, per la rabbia che gli aveva suscitato. Ma forse, come analizzò il poeta e critico d’arte Cesare Vivaldi: «Schifano è molto più indifeso di quanto voglia far credere», perché doveva sostenere «il peso di un talento quasi eccessivo». […] [SCHIFANO] All’amico Goffredo Parise che gli ha chiesto di raccontarsi, si descrive così: «Schifano è un uomo di trent’anni, di tipo sommariamente mediterraneo, se non arabo. In riposo il suo corpo, alto circa un metro e settanta, del peso di cinquantacinque chili, visto da angolazioni e distanze diverse, rivela innanzitutto un languore felino, innocente e attonito, come un piccolo puma di cui non si sospetta la muscolatura e lo scatto». Ma prima lo aveva avvertito, dandogli del lei per fingere una professionale distanza: «Mario Schifano è i suoi quadri. Dunque guardi i quadri e conoscerà Schifano». Parise, […] ne descrisse la casa: «tre divani di lana bianca, un enorme tavolo di travertino, una televisione bianca e un complicato e quasi elettronico impianto di giradischi con altoparlanti bianchi dovunque. Non c’erano quadri alle pareti, tutto, salvo le travi del soffitto, era bianco». (pp. 210-211)
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Schifano […] Moravia disse di lui […]: «Non esce mai di casa, non va mai nelle case degli altri; forse per questo ha preso in affitto un appartamento vastissimo nel quale, secondo gli amici, si potrebbe circolare in bicicletta [...]: tenace aspirazione a un’autonomia completa nei riguardi del mondo». […] «Io sono gli anni Sessanta» diceva di sé e si moltiplicavano gli aneddoti che ne costruivano il mito. Come quando, passeggiando nel centro di Roma con Marianne che aveva freddo, entrò in un negozio e le comprò una pelliccia pagandola con un disegno fatto lì per lì. […] O quando generosamente donava a chi gli chiedeva un prestito i soldi che teneva arrotolati nelle tasche dei pantaloni sempre troppo larghi. (pp. 212-213)
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Nel ’66 a Franco Angeli, estremista e già beat fino all’autodistruzione, capitò di dipingere una tela insieme a Jack Kerouac senza saperlo. Perché lo scrittore americano era stato sbattuto fuori da un bar, ubriaco fradicio. Angeli l’aveva raccolto da terra e portato nel suo studio di via Oslavia senza immaginare chi fosse. Poi si erano messi a dipingere insieme e solo al momento di firmare il quadro aveva appreso che ad aiutarlo era stato Kerouac. Il quadro, La deposizione di Cristo, poi, era appartenuto all’attore Gian Maria Volonté. (p. 214)
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Cloti Ricciardi: «Se sei femmina non puoi essere artista». (p. 214)
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Piero Manzoni […] nel ’61 "firma" i corpi di amici - come Eco e Schifano - rilasciando certificati di autenticità e chiamandoli Sculture viventi; poi produce "corpi d’aria", vale a dire palloncini gonfiati da lui col suo respiro che chiama Fiato d’artista. A Roma, alla Salita, resta nella leggenda una serata in cui si fa dare da Angeli una scarpa e la firma dichiarandola opera d’arte. Lo stesso fa con la scarpa di Schifano. Denunciava quanto stava accadendo nell’arte sempre più governata dai mercanti rispetto alle fortune e ai destini degli autori. Una denuncia che diventa radicale con le novanta scatole sigillate della Merda d’artista, ognuna di 30 grammi, vendute a peso d’oro. Le scatolette non contenevano quel che c’era scritto fuori, erano «una provocazione di Manzoni, polemico contro le firme celebri che vendevano a mercanti e collezionisti le loro opere "a scatola chiusa"» tentò di spiegare ai soliti politici scandalizzati Palma Bucarelli quando, nel ’71, le espose alla Gnam. (pp. 217-218)
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Nel ’74, l’anno di un suo famosissimo quadro, La vucciria, che Parise definisce «capolavoro», Guttuso spiega all’amico, che lo stuzzica, la sua idea di come si deve leggere un’opera d’arte. Gli domanda Parise: «Molti pittori e artisti mostrano cose che non ci sono o che sono al di là, "oltre" il quadro. Certe volte non si vede il loro lavoro; certe volte c’è il corpo, altre volte fanno sulla tela piccoli segni, grandi o piccoli che non si capiscono, come una tappezzeria,, altre volte ancora non esistono nemmeno i segni, altre volte infine fanno mucchietti di sassi per terra e basta. Dimmi tu che sei un oracolo, e sei un quadro che parla, come devo leggere e capire quelle cose?» Guttuso gli risponde che deve farlo nello stesso modo in cui ha letto la nitida descrittività di Vucciria con la natura morta degli animali esposti nel mercato, e la vitalità, temporanea, delle persone che lo attraversano. Gli dice esattamente: «Hai detto di aver visto il corpo dei pittori, e questo basta; hai detto di aver visto la tappezzeria e questo basta. Anche in questo caso non c’era nulla "oltre" quello che hai visto, al di là di quello che hai visto. Quello che hai visto hai visto». (p. 219)
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Elsa Morante […]: «Per quel che mi riguarda io non voglio essere considerata una persona vivente, io vorrei essere un fantasma, uno spettro» diceva. «Le donne pensano solo a se stesse e alle loro faccende private, scimmiottano l’uomo, ed è un segno della loro stupidità voler essere come i maschi». (p. 222)
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Nel ’62, nella saletta Einaudi di via Veneto, si tiene un dibattito sul premio Formentor, che Dacia Maraini aveva vinto nella sezione giovani con il secondo libro, L’età del malessere. La giuria era costituita da editori internazionali, fra cui Giulio Einaudi, che aveva pubblicato il romanzo ed era cofondatore del Formentor. C’era il critico letterario Cesare Cases, c’era Moravia che improvvisamente viene attaccato da un altro scrittore, Giuseppe Berto: «Capomafia culturale» gli grida Berto. Lo accusa di avere un clan di amici artisti e di favorirli. Maraini pagherà nella bagarre che segue il prezzo più alto: il suo libro viene indicato come prova di un abuso di potere, anche se Moravia nel Formentor era membro di un’altra giuria, quella della sezione principale, che premiava grandi nomi internazionali. «Indubbiamente nei miei inizi letterari sono stata favorita dall’essere la compagna di Moravia» riflette oggi la scrittrice. «Ma ne sono stata anche molto penalizzata. Ho impiegato un tempo lunghissimo a farmi prendere sul serio». In quella occasione Berto la offende pesantemente, lei gli dà dello stronzo. (p. 223)
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«La letteratura è un affare sporco, proprio come il commercio di armi» diceva Ingeborg Bachmann. […] Alla fine del ’62 si consuma la storia d’amore con Max Frisch, […]. Abitavano all’indirizzo di via Giulia 102, dove si erano trasferiti un po’ insieme e un po’ no, perché in via Margutta 53 lui, che era scrittore e anche pittore, aveva lo studio in un romantico edificio scalcinato, composto da un vasto soggiorno dai soffitti altissimi con una vetrata gigantesca, un angolo cottura e un bagno minuscolo. […] In via Margutta, allo stesso indirizzo, stesso pianerottolo, avevano il loro domicilio romano Giangiacomo Feltrinelli e Inge Schönthal, da poco marito e moglie. Lei […] Racconta quei tempi così: «Tutte le mattine, quando uscivo piuttosto presto, la porta dei nostri vicini si apriva e Max Frisch mi si presentava in una nuvola di fumo che profumava di buon tabacco inglese da pipa (fumava come una ciminiera). Mi diceva: "Andiamo a prendere il caffè?" e così facevamo la promenade di via del Babuino. Il suo caffè preferito era di fronte alla nostra libreria». Nel maggio del 1958, Frisch aveva sentito alla radio di Amburgo il radiodramma di Ingeborg Bachmann Il buon Dio di Manhattan e aveva scritto una lettera entusiasta alla poetessa: «Abbiamo bisogno della rappresentazione dell’uomo da parte della donna, dell’autorappresentazione della donna» le diceva fra l’altro. Si diedero appuntamento a Parigi, per conoscersi, in un locale di fronte al teatro dove si rappresentava una commedia di lui, Omobono e gli incendiari, il 2 luglio. Ma, come racconterà lo scrittore in Il mio nome sia Gantenbein, non andarono a vedere lo spettacolo. Rimasero insieme tutta la notte fino all’alba. Poi tentano una convivenza a Zurigo, ma è subito chiaro che non può durare più di quattro settimane. Prendono allora due case separate e resistono altri sei mesi, ma lui si ammala di epatite virale e le chiede di allontanarsi. Quando guarisce le scrive a Roma, dove Bachmann è tornata a vivere, proponendole di sposarlo («siamo una coppia, una specie di coppia, non si può nasconderlo»), ma lei rifiuta. Si rimettono comunque insieme garantendosi libertà reciproca. Libertà minata da una furiosa, incontrollabile gelosia. Max fruga fra le lettere di Ingeborg, Ingeborg legge un diario di Max, chiuso a chiave in un cassetto, e lo brucia. Glielo confesserà in un bar romano, nel ’63, durante l’ultimo incontro. «Non abbiamo superato bene la fine, nessuno dei due» ammettono. (pp. 225-226)
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1963 […] durante un convegno a Palermo nasce ufficialmente in ottobre il Gruppo ’63, a cui aderì non solo il nucleo fondatore della generazione dei trentenni Eco, Balestrini, Arbasino, Pagliarani, Angelo Guglielmi, Amelia Rosselli, Furio Colombo, Luigi Malerba, Enrico Filippini, Antonio Porta, Giordano Falzoni, ma anche quella dei più vecchi Aldo Palazzeschi, Luciano Anceschi e Augusto Frassineti e dei più o meno quarantenni Alfredo Giuliani, Francesco Leonetti, Germano Lombardi, Gastone Novelli, Giorgio Manganelli, Alice Ceresa, Lamberto Pignotti, fino ai poco più che ventenni Achille Bonito Oliva, Gianni Celati, Sebastiano Vassalli, Nico Orengo, Carla Vasio, Adriano Spatola e Giulia Niccolai. (pp. 230-231)
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[ADRIANO] Spatola […] a Bologna è conosciuto in città con il soprannome Baudelaire. (p. 230)
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Giulia Niccolai, al termine di un suo articolato percorso spirituale attraverso lunghi soggiorni indiani, è diventata nel ’90 monaca buddista in un ashram italiano, (p. 230).
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Divertimento e goliardia erano elementi molto forti nelle uscite polemiche e provocatorie del Gruppo ’63. Come l’attacco, sempre su Paese Sera, contro «le Liale della letteratura» Cassola, Bassani e Pratolini. O la pronta storpiatura del celebre titolo in Il giardino dei Finti-Pompini (ma questo era il gusto battutaro dell’epoca, retaggio degli anni Cinquanta, […]). Non fu goliardia, invece, ma un vero e proprio assalto per usurparne il potere, quello che Bassani subì nell’ufficio romano della casa editrice con Giangiacomo Feltrinelli in persona che frugava nei suoi cassetti, fomentato - mi è stato detto da testimoni attendibili - dai suoi nuovi collaboratori Balestrini e Filippini. Cercava le prove che il narratore bolognese tramasse tradimenti con altre case editrici. (p. 232)
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Tommaso Landolfi […] [ ERA] Divorato dal demone del gioco, […]. Leone Piccioni nel suo Memoriette racconta […]: «Tommaso Landolfi, grande scrittore, era un bellissimo uomo, piuttosto brusco di modi e tendente ad allontanare la gente. S’innamorò di lui una bellissima Leonor Fini, che non conosceva. Landolfi frequentava il Caffè Greco a Roma e quasi tutte le mattine ormai trovava la Fini che avrebbe voluto conversare». Fece di tutto per scoraggiarla. Quando lei gli rivolgeva la parola, la invitava a parlare col suo "avvocato", un amico che gli sedeva accanto. L’avrà fatto per scherzare e infatti lei non se n’era offesa per niente perseverando nella sua opera di sfinimento (aveva fama di seduttrice, sapeva quel che voleva e come ottenerlo). Insomma nacque un amore o poco di meno e, stando a guanto dice Piccioni, un giorno Leonor convinse il riottoso Tommaso a partire insieme per Parigi. Dove però arrivò da sola. Lo scrittore, infatti, s’inventò di non avere il passaporto e scese dal treno. Per prenderne probabilmente subito un altro diretto alla vicina Saint-Vincent, famosa capitale del gioco d’azzardo. (pp. 233-234)
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Carlo Emilio Gadda, […] è meglio cominciare dal suo guardaroba, uniformemente blu, camicie bianche e «cravatte deplorevoli» che acquistava in via della Mercede «in un sonnolento magazzino» e scarpe rigorosamente nere, lucidissime, che si faceva pulire dai lustrascarpe di strada. [….] Maldestro e sempre fuori posto, era terrorizzato di offendere le persone e di sbagliare comportamento, così offendeva e sbagliava quasi sempre e, per recuperare, tormentava gli interessati con ripetute telefonate di scuse che diventavano la tortura di chi era stato coinvolto nelle sue attenzioni, o supposte disattenzioni. Antonio Debenedetti nel memoir dedicato al padre, Giacomino, […] racconta di un Gadda grande e grosso che nel ’67 si presenta inatteso - aveva avvertito della visita, invece di Renata Debenedetti, i suoi consuoceri - in via del Governo Vecchio mentre fervono i preparativi delle nozze di Elisa (figlia di Renata e di Giacomo) che va sposa al critico d’arte Maurizio Fagiolo dell’Arco. Il trentenne Antonio, che viveva a poca distanza, chiamato dalla madre allarmatissima, accorre in soccorso. Trova l’Ingegnere «tutto vestito di blu, imponente e cerimoniosissimo, ovviamente a disagio». Si è seduto in una grande poltrona foderata di blu «come attento a non sfruttare la comodità dei cuscini, l’agio dei braccioli, la spaziosità del sedile». E mentre Renata racconta al figlio la sua gratitudine per il «regalone» che Gadda è venuto a portare, cinquecentomila lire in contanti che per l’epoca sono una fortuna, l’autore dell’Adalgisa ha un ripensamento e prorompe in un torrente di giustificazioni e autoaccuse, sostiene che la cifra è «misera», si dà dello stupido. Madre e figlio non sanno cosa inventarsi per consolarlo. Alla fine Antonio si offre di accompagnarlo in macchina - aveva una millecinque Fiat, comprata usata, di cui andava fiero - fino a via Veneto, dove Gadda dice di avere un appuntamento alla libreria Einaudi. Ma il tragitto lungo il Muro Torto fu infernale - questo in Giacomino non c’è, me lo racconta adesso Antonio al telefono. «Gadda sprofondò in un imbarazzante lugubre silenzio», fissava senza speranza un punto avanti a sé, inerte e chiuso a ogni sollecitazione. Una volta a casa, poi, chiamerà il giovane Enzo Siciliano che da qualche tempo è entrato a far parte della cerchia intellettuale romana e, quasi coetaneo di Antonio - ha solo tre anni meno di lui -, è un suo grandissimo amico. Gadda dunque attacca una filippica sulla presunta offesa arrecata ai Debenedetti a pochi mesi dalla morte di Giacomo, scomparso prematuramente il 20 gennaio di quello stesso anno e per il quale la reverenza di Gadda era illimitata: «Avranno preso il mio gesto per un’elemosina all’orfana. Che devo fare? Mi dia un consiglio lei, che è amico della famiglia...» Siciliano riuscirà a calmarlo solo dopo una serie di pazienti riti consolatori. Di episodi simili è piena la biografia di Gadda, segno del tormento continuo in cui viveva e scriveva e di un’innocenza che diventava facile bersaglio del ferocemente goliardico Parise, autore di scherzi memorabili e suo vicino di casa alla Camilluccia. […] un’altra fisima del Gaddus era quella di doversi difendere dalle fantasie matrimoniali delle signore letterate nei suoi confronti e che nutriva verso la signorilità leggera e charmante di Goffredo una specie di sudditanza. Carlo Emilio invece si considerava «rozzo, trivialuccio e bisbetico» - come confessa ad Arbasino - vittima di una madre amatodiata, anzi di un «madro» come diceva lui, che ne aveva per sempre inibito la sessualità. Parise si divertiva a inviare a qualche amico (stando a Giosetta Fioroni) e anche a qualche amica dei salotti romani (stando ad Arbasino) anonimi cazzi finti di cartapesta che si faceva preparare in foggia assai realistica da un fabbricante di scatole di via Zanardelli. E, sempre per scherzare, confidava all’esterrefatto Ingegnere, quando con gli involti a forma di salumi sotto il braccio lo incrociava sul piazzale diretto dal loro comune barbiere, che la carta migliore per quello scopo era quella dell’Europeo. Il povero Gadda entrava in fibrillazione: temeva che, vedendo il timbro sul pacco proveniente dall’ufficio postale della Camilluccia, le varie Bellonci, Astaldi, de’ Giorgi, Masino, de Céspedes pensassero a lui come mittente. Ed era così ingenuo che non arrivava a sospettare l’amico burlone come artefice degli scherzi fatti a suo danno. Uno di quei famosi cazzi finti arrivò pure al suo indirizzo. E, peggio ancora, un giorno si ritrovò nella cassetta delle lettere un minaccioso ritaglio di giornale con un articolo in cui si parlava di un fattaccio di cronaca avvenuto alla Camilluccia: avevano ucciso e dato fuoco a un omosessuale. Subito, agitatissimo, andò a casa di Parise, che viveva con Giosetta Fioroni (fonte di questo aneddoto).
«Chi può essere stato, perché?» chiese trafelato.
«Forse pensano che tu sia un invertito!» fu la risposta di Goffredo fra le risate.
«Dovrò dunque cedere alla terribile pratica del matrimonio, per tacitare simili voci, come mi suggerisce sempre la Bellonci?»
Ma ecco che entra Giosetta e, non sopportando oltre il non simulato sconvolgimento dell’Ingegnere, si decide a rivelargli la verità.
«Giosetta e la sua solita pietas...» sospira Parise vedendo sfumare il divertimento. Giosetta confessa che, quando si trovava sola con Gadda, al cospetto «dei suoi piedoni impressionanti, calzati in scarpe gigantesche, strane, legnose» era terribilmente a disagio e sulle spine, e per intrattenerlo non trovava di meglio che spettegolare di Arbasino incontrato la sera prima, magari, con una nuova conquista o un suo certo fidanzato elettricista. Gadda allora si faceva attento e, fra lo scandalizzato e l’incuriosito, domandava: «Ma perché, ha un fidanzato Arbasino?»
«Tanti».
«Tanti... »
Ancora Parise un giorno scrisse il nome Gadda sulle frecce stradali che da via della Camilluccia indicavano il senso unico di via Blumenstihl fino alla casa del Gran Lombardo, e possiamo immaginare lo stupore, lo sconforto, la paura dell’autore del Pasticciaccio vedendosi oggetto di tanta indecorosa popolarità e meta di chissà quale pellegrinaggio di massa. Ancora Cattaneo racconta di un viaggio esilarante che Gadda e Ungà (Ungaretti) fecero insieme nel ’53 invitati dall’università di Salamanca, con il poeta che, al Prado, non permette all’altro di guardare in santa pace Rubens e lo trascina via dicendo: « È barrocco! È barrocco!» - arrotando le erre com’era suo vezzo - e poi gli tocca assistere esterrefatto alle scorpacciate di uova che Gadda ingurgita tutto soddisfatto. «Mangiava dodici uova! Mangiava diciotto uova!» raccontava a tutti Ungà al ritorno aggiungendo uova su uova. E poi c’è la serie delle frasi memorabili del Gaddus. Sempre ossessionato dal doversi prima o poi sposare: «Sono molto grato alle signore lesbiche perché almeno non si mettono in lista per maritarsi»; messo a dieta dal medico che gli consigliava di aprire i pasti con un’insalata al posto della pastasciutta: «E chi glielo dice al mio stomaco che non sono spaghetti ma è insalata?» (raccontate da Piccioni). Non si finirebbe mai di ripetere le storielle che lo riguardano e pazienza se sono al limite del pettegolezzo, come quando si presentava agli inviti a pranzo con vassoi straripanti di pasticcini e se ne mangiava una buona metà o quella volta che, sempre con Parise che lo scarrozzava in macchina, una Mg rossa fiammante, tirò il freno a mano terrorizzato dalla velocità. I pettegolezzi gli piacevano, frastornato dalla verve inarrestabile del tanto più giovane Arbasino, lo ascoltava con giubilo decorosamente dissimulato parlare della Grande Sartreuse, e s’intendeva la Beauvoir, della Grande Banteuse, e s’intendeva la Banti (facilmente poi la battuta slittava verso una Grande Trombeuse della lirica), delle «famose invasioni dei Daci e Moravi», di Sagan a Saigon, di Bassani come «primo paltò di cammello del dopoguerra», di Pasolini costretto a scappar sempre via dalle cene «prima del dolce perché senno i ragazzini non lo aspettavano. E tutti: vai vai, senno vanno a dormire. Ragnetti si definivano allora. (Altro che morettoni, bonazzoni, bistecconi, come poi in seguito, col nutrimento)». E quella sera, sempre con Arbasino e sempre da lui raccontato nell’Ingegnere in blu, al Teatro della Cometa di Mimi Pecci-Blunt per assistere a uno spettacolo di cabaret con Giancarlo Cobelli, le risate per lo sketch della Notte delle Else: le "streghe romane" Morante, Merlini, de’ Giorgi, Martinelli, Maxwell.. (E se si vuol sapere di cosa fossero capaci: un bel giorno la Morante - questo nella realtà, non nella rutilante favola arbasiniana - si mise a firmare le dediche ai suoi libri E.M. - non più solo Elsa - per «evitare confusioni». Era seccata dalla compresenza letteraria della de’ Giorgi, diventata scrittrice, alla quale una volta aveva spento la sigaretta nella scollatura perché faceva la civetta con Visconti.) E a proposito di Elsa Morante ecco ancora una vivace scenetta, e poi cambiamo argomento, immortalata da Arbasino: «L’Ingegnere sbuffava parecchio quando l’autrice di Menzogna e sortilegio sopravveniva sventolando Paese Sera e strillando che bisognava subito stendere e firmare tutti un manifesto di denuncia o protesta tipo Sartre-Beauvoir a proposito di bombe o di gatti». Gadda si defilava, salvo poi il giorno dopo, telefonare al suo Alberto per informarsi: «Ha strillato molto anche stavolta, l’Elsina?» (pp. 234-240)
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«A volte uno si crede incompleto ed è soltanto giovane» diceva Calvino, […]. (p. 244)
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«Non amo le molte compagnie, talvolta mi prendono momenti di buia, nullificante misantropia e non vedo proprio nessuno. Certo vorrei vedere te» scrive Parise da Treviso alla Morante il 23 dicembre del ’63 […] e dichiara: «Ma mi convinco sempre di più che rare, rarissime donne hanno il dono dell’arte» perché le donne che hanno il senso «dell’infelicità del tutto» sono delle eccezioni. (p. 245)
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Giorgio Manganelli: «Ho in odio le nasali lamentazioni autobiografiche, i corrucci lirici e allusivi [...] Amo la compagnia, fra tutte discretissima, dei morti». E dopo la sua umida, goffa apparizione in piazza del Pantheon, potrà sembrare sorprendente un’altra dichiarazione: «Mio padre era Re: ciò non è materia di dubbio». […] Con tutto ciò, tornando alla persona Manganelli, e avendolo conosciuto, trovo irresistibile usare questo passaggio di Hilarotragoedia per presentarlo, anzi per lasciare che si presenti da sé: «Io sono stato sempre, e destinato certamente ad essere, per il breve tratto che mi resta da vivere, uomo affatto insocievole, scostato e scostante, avarissimo di parole, castissimo di gesti, astemio da qualsivoglia coinvolgente passione, infine ingrato agli altri e a me stesso oneroso». La «coinvolgente passione», in realtà, era stata concreta minaccia quando a Milano, sua città di nascita nel ’22, si era innamorato follemente della minorenne poetessa Alda Merini, […]. Ma la giovanissima età di lei e gli squilibri psichici che dimostrò precocemente, il fatto di essere lui già sposato e padre di una bambinetta di due anni, la furia del padre di Alda che un giorno lo aspettò sotto casa e gli scaricò addosso un bel po’ di legnate, infine la durezza di una moglie che lo disprezzava lo convinsero a una fuga roccambolesca e precipitosa, in Lambretta, fino a Roma. (pp. 258-259)
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Bernhard, che scomparve il 19 giugno del ’65, un mese prima di Bazlen: l’aveva previsto attraverso i suoi oroscopi sbagliando la data esatta di soli otto giorni. Morí per colpa del cuore, come Bazlen. E come Bobi aveva il problema della scrittura, anche se chi lo conosceva lo vedeva scrivere sempre: diari, appunti, meditazioni, trascrizioni di sogni, ritratti astrologici delle persone che prendeva in analisi - disegnare la mappa astrale di nascita era la prima cosa che faceva per orientarsi di fronte a un nuovo paziente - senza contare l’infinita quantità di bigliettini in cui appuntava i responsi dell’I Ching, «il libro cinese» come lo chiamava, che consultava regolarmente. […] Aveva lo studio e l’abitazione in via Gregoriana 12, all’ultimo piano con ascensore. Ci rimase dal’ 40 per tutta la vita, sempre in affitto. Di fronte all’ingresso si trovava una stanza che per una metà era il soggiorno, col pianoforte e sopra un samovar, e nell’altra parte c’era lo studio di Dora Friedländer, la moglie, anche lei analista: la sua prima allieva. Dall’ingresso partiva sulla sinistra un lungo corridoio dove s’incontravano prima una piccola cucina, poi il bagno e quindi uno stanzino occupato da un grande filodendro rampicante che accompagnava la coppia dai tempi in cui Ernst era stato prigioniero, perché ebreo, nel campo di concentramento fascista di Ferramonti in Calabria, dal giugno del ’40 all’aprile del ’41. […] Lo stanzino fungeva da sala d’aspetto. Lo studio di Ernst era una doppia stanza con una tenda che nascondeva il letto dove dormiva. (pp. 262-263)
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Juan Rodolfo Wilcock […] si vestiva nel mercatino di via Sannio nel quartiere San Giovanni. […] Aveva un fisico asciutto […]., occhi scuri […] viso […] molto segnato. Era un omosessuale […] Viveva come un barbone in via Demetriade, fra la Tuscolana e l’Appia Nuova, in un prefabbricato. «Era una sua scelta vivere così, in quella casa barocca piena di libri, polvere e peli di cane» racconta Pecora. […] gli piaceva stare isolato e circondarsi di oggetti in disuso, segnali stradali che andava raccattando. (pp. 267-268)
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Ginevra Bompiani […] ricorda di aver conosciuto Wilcock, importante collaboratore della collana, a una colazione ufficiale: «Portava come cravatta sulla camicia un laccio da scarpe». Intercettando lo sguardo interrogativo della editor le spiegò misteriosamente: « È un gioco di parole: fra callo e collo». (p. 270)
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Elémire [ZOLLA] e Vittoria [CRISTINA CAMPO] […] Nel ’76 Elémire conosce la donna con cui passerà il resto dell’esistenza e a lei, Grazia, dice che con Vittoria i sentimenti si sono ormai raffreddati. Scrive la biografa della Campo Cristina De Stefano: «Si scontrano anche su cose minime. Si fanno dispetti puerili. Pietro Citati ricorda che l’uno toglieva dal registratore le musiche preferite dell’altro e viceversa: così, per infastidirsi. Anni prima hanno fatto testamento insieme, uno a favore dell’altro. Ma lei, un giorno, distrugge il suo senza dirgli niente. […]». (p. 276)
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Sandro Penna […] lui che tanti anni prima, in un caffè di piazza Barberini leggeva a Umberto Saba, appena conosciuto, la sua poesia che cominciava così: «Nel fresco orinatoio, alla Stazione...» e Saba aveva telegrafato alla moglie, a Trieste, rinviando la partenza: «Ho trovato un grande poeta!» (p. 299)
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Nel ’73 […] l’8 aprile a novantadue anni si spegne Pablo Picasso: le sue prime parole erano state «piz, piz» e intendeva dire "làpiz", matita, perché voleva mettersi a disegnare; le ultime - o quasi: «A dodici anni dipingevo come Raffaello, però ci ho messo tutta una vita per imparare a dipingere come un bambino». (p. 316)
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Pasolini […] in un’intervista televisiva a Enzo Biagi, del ’71, andata in onda solo dopo il suo assassinio, aveva detto: «La parola speranza è cancellata dal mio vocabolario. Quindi continuo a lottare per verità parziali, momento per momento, ora per ora, mese per mese, ma non mi pongo programmi a lunga scadenza perché non ci credo più». […] «Abbiamo perso un poeta e di poeti non ce ne sono tanti nel mondo, ne nascono due tre in un secolo...» urlava Moravia a Campo de’ Fiori il giorno dei funerali di Pasolini. (p. 320)