Andrea Kerbaker, il Sole 24 Ore 3/3/2013, 3 marzo 2013
SHAKESPEARE, BUONA LA PRIMA
La prima volta che mi sono imbattuto in una delle edizioni secentesche di William Shakespeare è stata una ventina d’anni fa, attraverso un catalogo d’asta. Stavo lavorando a una ricerca sulle dediche autografe, e i cataloghi erano prodighi di indicazioni utilissime. Li compravo per due soldi appena concluse le sedute all’incanto, affascinato dalle descrizioni e dalle ricche illustrazioni che mi facevano sognare di poter accedere, un giorno, a quei mondi di collezioni raffinatissime (e ancora oggi mi pare incredibile che qualcuno mi includa nel novero dei felici pochi che fanno parte della categoria).
Il catalogo in questione si riferiva a una vendita di Sotheby’s che si era svolta a Londra il giovedì 19 luglio del 1990: un volume di grande formato di 300 pagine e quasi 500 lotti, dove si sprecavano le chicche per gli appassionati. C’erano, per esempio, delle bozze di James Joyce interamente postillate e rilavorate; oppure un gruppo di 82 (ottantadue!) lettere di Rudyard Kipling e di sua moglie Carrie alla famiglia Price, con la quale erano stati in contatto per molti decenni; o, ancora, un lotto spettacoloso composto da decine di manoscritti autografi di D.H. Lawrence, nella sua impeccabile grafia ancora ottocentesca. Il pezzo più prezioso era sicuramente il Great Vellum Notebook di Yeats: un manoscritto di quasi 400 pagine che conteneva appunti inediti e bozze di poesie del grandissimo letterato irlandese; «uno dei più importanti manoscritti letterari del nostro tempo» diceva la scheda del catalogo, senza esagerare troppo.
Nelle pagine di Sotheby’s vedevo riprodotti tutti quei pezzi con gli occhi spalancati dal desiderio. E tuttavia il catalogo mi aveva attratto per un motivo completamente diverso: la copertina. Una pagina bianco latte, interamente occupata dalla riproduzione di un testo di William Shakespeare. Nella chiarissima stampa secentesca, appena ingrandita, parlavano due personaggi, Mir. e Pro. Ovviamente Miranda e Prospero, dalla Tempesta, visto che nel testo si faceva riferimento al «Neapolitan Gonzalo». Credo che, nelle intenzioni del compilatore, quel testo fosse stato messo per un elogio del libro contenuto in tre versi di Prospero: «Knowing I lov’d my bookes, he furnish’d me From mine own Library, with volumes, that I prize above my Dukedome» («sapendo che amavo i miei libri, mi provvide, togliendoli dalla mia biblioteca, di parecchi volumi di cui faccio più conto che del mio ducato»). Tuttavia era ovvio che quella citazione non doveva essere fine a se stessa: un’edizione rara della Tempesta doveva essere compresa nel catalogo; e infatti, eccola, al lotto numero 22: una copia del cosiddetto second folio, la seconda edizione completa delle opere di Shakespeare, pubblicata nel 1632. Un bell’esemplare, informava il curatore, «con margini più larghi e più altidi quasi tutti gli altri», appartenuto a un tale Edwin Forrest, attore shakespeariano di una certa importanza nell’Ottocento. Come se non bastasse, nel lotto successivo, il numero 23, veniva offerta un’altra copia della stessa edizione, anche se priva di qualche pagina, riprodotta in facsimile; e al numero 35 dello stesso catalogo ecco comparire un terzo esemplare, pure in condizioni non perfette. E, se il primo lotto veniva stimato tra le 12 e le 15.000 sterline (più o meno 30 milioni di lire di allora), gli altri si fermavano a 3 o 4.000: una cifra elevata, ma tutto sommato non trascendentale. Per fare un esempio, il quadernone di Yeats era andato a 50 volte tanto, 198.000 sterline, e molti dei lotti di quel catalogo erano stati aggiudicati a cifre comprese tra le 10 e le 20.000 sterline. Per me fu una vera rivelazione. L’idea di poter comperare all’asta uno di quei libri mi parve assolutamente stupefacente.
Perché, se quella frequentazione con i cataloghi mi aveva abituato a veder passare un po’ di tutto, il caso di Shakespeare era totalmente differente: quei tre lotti mi stavano dicendo che con una manciata di milioni di lire si poteva entrare in possesso di un pezzo della storia della letteratura di tutti i tempi.
Era come se in un’asta di dipinti mi fossi trovato di fronte a tre Caravaggio o Raffaello – non i migliori, d’accordo, ma pur sempre pezzi da museo. E, per quel che mi riguardava, i tre libri in offerta erano proprio esemplari da biblioteca, non qualcosa che si potesse acquistare un pomeriggio di luglio anziché andare a spasso con il cane, per poi infilarlo con noncuranza tra i libri della propria collezione. E già immaginavo il fortunato acquirente britannico seduto nel suo salotto con l’aplomb tipico degli anglosassoni, la pipa in bocca e l’inevitabile maglioncino di cachemire, mentre un ospite, guardando il librone, gliene chiedeva notizie. «È un folio di Shakespeare, caro», diceva il neoproprietario dopo una voluttuosa boccata di tabacco. «Di quelli stampati appena dopo la sua morte, nel Seicento. Forse vorresti sfogliarne qualche pagina?» Niente male, no?
Perché Shakespeare è Shakespeare, e le sue prime edizioni sono il frutto di un’operazione editoriale mitica, grandiosa, intrapresa subito dopo la sua scomparsa con ambizioni elevatissime.
Alla base dell’impresa, due dei suoi attori preferiti, John Hemminge ed Henry Condell, nominati da lui stesso nel suo testamento. Siamo attorno al 1620. Per un degno omaggio all’amico e maestro, i due attori vogliono da subito utilizzare il folio, il più grande dei formati. Una dimensione riservata di solito ai grandi classici, certo non alle opere teatrali.
Del resto, a quell’epoca il teatro è considerato un genere minore: gli nuoce la sua popolarità. Il grande formato di Shakespeare non sarà soltanto un omaggio allo scrittore, ma a un intero mondo del palcoscenico che soffre la propria sottovalutazione.
D’altronde, l’ammirazione dei due curatori per Shakespeare è totale: «Lui, da quel grande imitatore della Natura che era, la sapeva esprimere nel più gentile dei modi. Mente e mano in lui andavano insieme: e ciò che pensava, lo diceva con quella semplicità». Il volume che esce dal lavoro di Hemminge e Condell passerà alla storia con la definizione di first folio: in grande formato, di ben 900 pagine, per 36 opere complessive. Si intitola Mr. William Shakespeare’s Comedies, Histories & Tragedies, è stampato nel 1623 da due tipografi-editori dell’epoca – William Jaggard con suo figlio Isaac ed Edward Blount – e nel frontespizio porta un ritratto dell’autore, opera di Martin Droeshout, un giovane artista fiammingo allora ventiduenne e altrimenti destinato a essere dimenticato dai posteri. L’operazione, dicono i due curatori nella prefazione «per la grande varietà dei lettori», è stata faticosissima: «Sarebbe stato bene, confessiamo, e lo avremmo ben desiderato, se l’autore avesse vissuto tanto da preparare e supervedere i suoi scritti; ma è stato disposto diversamente, ed egli è stato privato dalla morte di quel diritto. Vi preghiamo di non criticare i suoi amici che si sono addossati il lavoro e la fatica di raccoglierli e pubblicarli».