Giampaolo Pansa, Libero 3/3/2013, 3 marzo 2013
L’ALGIDA GELMINI E IL COMICO FUGA D’AMORE
Un giorno del marzo 2013, Pierluigi Bersani si dimise da segretario del Partito democratico e abbandonò per sempre la politica. Il primo a saperlo fu Nichi Vendola. Era andato da Pigi per proporgli di fondare insieme il Partito unico dei lavoratori, ma quando apprese che lasciava tutto ebbe un mezzo coccolone, poi risolto dai medici del Gemelli. In effetti la notizia era di quelle formato gigante. Bersani si ritirò a Bettola e aprì un ristorante di cucina piacentina, “Il tacchino sul tetto”, una vecchia metafora di Pigi che avrebbe portato fortuna al locale.
L’apparato bersaniano, guidato dalla troika Stumpo, Migliavacca e Fassina, si sentì perduto. Chiese a Rosy Bindi di precipitarsi a Bettola per convincere l’ex segretario a ritornare in campo. Ma vennero tramortiti da una seconda sorpresa. Pur essendo una vergine di ferro sessantenne, la Rosy si era innamorata di uno scapolone più anziano di lei. Era il marchese Filiberto Di Tacco, discendente del famoso brigante gentiluomo Ghino. La coppia aveva contratto le nozze in segreto a Radicofani, provincia di Siena. E la Rosy, diventata marchesa Di Tacco, si era decisa anche lei a dire basta alla politica.
La nomenklatura del Pd fu costretta a un passo che non avrebbe mai voluto fare: chiese aiuto all’odiato Matteo Renzi. Il sindaco di Firenze accettò di prendersi in carico il partito da commissario straordinario. Ma soltanto dopo che l’apparato firmò davanti a un notaio un contratto che gli garantiva l’elezione a segretario. Copiando il maledetto Berlusconi, il compagno Matteo registrò un video messaggio davvero tosto. Diffuso in tutte le sezioni democratiche, rincuorò iscritti ed elettori, chiamandoli alla lotta dura senza paura contro il grillismo.
RE GIORGIO RESTA
Il quadro politico cambiò con la velocità della luce. Giorgio Napolitano accettò di restare altri sei mesi al Quirinale. E rivelando un’energia d’acciaio, prese alcune decisioni storiche. Alla presidenza del Senato impose Gaetano Quagliarello, del Pdl, e alla Camera la Laura Puppato, erede di Nilde Iotti. Poi mise in sella un governo del presidente, guidato dal capo di Bankitalia, Ignazio Visco, e formato da appena sei ministri, tutti tecnici sconosciuti, ma dalla tenacia ferrea. L’esecutivo doveva durare in carica un anno, sino all’aprile 2014, con un programma d’emergenza: rassicurare i mercati, raffreddare lo spread, varare una legge elettorale più decente del Porcellum e occuparsi della crescita.
Il governo Visco ottenne subito la fiducia del Parlamento, anche perché fu votato da una buona metà dei grillini. Un miracolo generato da una questione imprevista. La truppa di Grillo e Casaleggio era fatta da persone quasi del tutto ignote l’una all’altra. Quando iniziarono a conoscersi, successe l’imprevedibile. Una parte scoprì il vizio italiano di dividersi in clan. Gli scapoli andarono all’assalto delle colleghe più belle. Una quota si scandalizzò per le scelte assurde compiute dai due capi delle Cinque stelle.
La rabbia montò quando si scoprì che la dittatura grillina aveva persino mandato in Parlamento madre e figlio. Lei, già infermiera del 118, al Senato e il suo pargolo alla Camera. Apparvero volantini beffardi: «Manca soltanto la suocera. Vediamo di trovarla». Il virus della divisione si fece molto pericoloso quando intaccò il vertice. Tutti si resero conto che il riccioluto Casaleggio stava prevalendo sul barbuto Grillo. Sempre di più Gianroberto si atteggiava a padrone del Movimento. Dava interviste a raffica ai media stranieri. E in modo subdolo lasciava intendere che Grillo contava meno del due di picche.
IL COMICO NON RIDE
Per di più Grillo si rese conto di essere in crisi. Certo, aveva portato in Parlamento un esercito di combattenti. Ma non esisteva nessuna battaglia da ingaggiare. Il governo Visco viaggiava senza incontrare ostacoli. Il prossimo capo dello Stato era già stato scelto da Napolitano: Emma Bonino, la leader radicale, un’arzilla signorina di Bra (Cuneo) che in marzo aveva compiuto appena 65 anni, una fanciulla rispetto al grande Giorgio. I mercati sembravano tranquilli. L’Italia stava sempre nei guai, ma non sembrava più disposta a drogarsi con i proclami grilleschi.
Il leader stellare cominciò a deprimersi. Si aggirava intristito attorno a Montecitorio, un santuario per lui proibito dal momento che non aveva potuto candidarsi. E spesso l’umore nero lo prendeva alla gola, obbligandolo a piangere.
Allora si rifugiava in un vicoletto sulla sinistra della Camera, lo stesso dove nel luglio 1948 era stato ferito a rivoltellate il capo storico del Pci, Palmiro Togliatti. E un giorno, in quel luogo sacro alla politica, fu sorpreso da una parlamentare che più distante da lui non poteva essere.
Era Mariastella Gelmini, 40anni, da Lonato (Brescia), una delle amazzoni berlusconiane, già ministro della Pubblica istruzione nell’ultimo governo del Cavaliere. Una signora dalla bellezza algida, il corpo snello, lo sguardo severo un tantino nascosto dagli occhiali da preside severa. Ma il cuore di Mariastella era quello di una donna generosa che, di fronte all’infelicità di un altro essere umano, sentiva il dovere di aiutarlo.
DOLCE MARIASTELLA
La Gelmini soccorse Grillo, lo confortò, poi chiamo un taxi e lo ricondusse in albergo. Il giorno successivo, il leader stellare la ringraziò con un mazzo di rose, accompagnato da un biglietto con l’invito a cena. Mariastella esitò a lungo. In fondo Grillo era un avversario politico tra i più incivili e volgari. Poi disse a se stessa: perché no? Anche l’uomo peggiore nasconde dentro di sé una pepita d’oro.
Fu allora che accadde quello che nessuno dei due si aspettava. Si videro, si rividero, si parlarono, si riparlarono, sempre nel segreto più assoluto. E a poco a poco scoprirono di essere fatti l’uno per l’altra. Ebbe inizio un’intensa storia d’amore. All’ età di 65 anni, Grillo perse la testa per quella signora quarantenne. Da stagionato donnaiolo, il capo stellare era eccitato dal sex appeal di Mariastella. La immaginava nella parte della femmina dominatrice, con la maschera da gatto e il frustino. Lei invece era attratta da un capopolo che veniva da un mondo opposto al suo.
Beppe e Mariastella dimenticarono tutto: i rispettivi coniugi, le famiglie, la distanza tra le loro vite, i doveri politici. Divennero una coppia fissa. Lei catechizzò lui. E lui si arrese a lei. Lasciò il Movimento e riscoprì la propria vena comica. Ma la indirizzò dove voleva la Gelmini: creare spettacoli per beneficenza, a favore degli orfani extracomunitari.
DISASTRO STELLARE
La loro fuga d’amore ebbe conseguenze pesanti. Il Movimento 5 Stelle andò a carte quarantotto. I parlamentari ex grillini si divisero in quattro sub partiti. La quota più robusta aderì ai democratici ormai guidati da Renzi. Il sindaco di Firenze disse ai suoi: «Dovevamo sfidare Grillo, però ci ha preceduto l’onorevole Gelmini». La quota minore rimase con Casaleggio. Ma il guru maniaco di futurologia si rivelò un disastro. Spediva email, proclami, editti, divieti. Nessuno lo ascoltava più. Si umiliò al punto di appellarsi alla Gelmini perché restituisse Grillo al grillismo. Lei lo invitò a presentarsi a uno spettacolo di Beppe organizzato dai preti del suo paese natale. E l’intera politica nazionale si avviò su binari meno avvelenati.
(Come i lettori avranno capito, questa è soltanto una fantasia. Più o meno nello stile di “Accade domani”, un vecchio film di René Clair. Quanto avverrà per davvero non lo conosce nessuno. E forse andrà peggio di così).