Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2013  marzo 03 Domenica calendario

E LO SGABELLO FINI’ IN MOSTRA

Gombrich ha affermato: «È un problema di convenzioni. C’è un’infinità di libri, che non leggo neppure, su Duchamp e su tutte le questioni relative all’orinatoio che ha mandato in un’esposizione… Si dice che avrebbe "ridefinito l’arte". Che banalità!».
È stato proprio così? Tutto comincia un po’ per caso. Un secolo fa. Febbraio 1913. Nell’atelier di Neuilly, il padre del dadaismo compone un bizzarro assemblage d’impronta pre-surrealista: fissa una ruota di bicicletta su uno sgabello da cucina. È il primo ready made. Ma, per «il mercante del sale», è solo un gioco. Dirà: «Non c’era in tutto questo nessuna idea di ready made, (…) era semplicemente un modo per distrarmi. Non avevo alcuna (…) intenzione di esporlo». Decisivo è il ruolo dell’imprevisto: «Si trattava di lasciar essere le cose e di creare una sorta di atmosfera dentro uno studio». Nessun bisogno di provocare. Solo un irrefrenabile desiderio di divertirsi. E la necessità di sfidare il concetto tradizionale di opera d’arte. Sulle tracce dei futuristi, Duchamp vuole abbandonare ogni staticità, per spingersi verso soluzioni dinamiche. «Volevo farla finita con la voglia di realizzare opere d’arte. Perché le opere devono essere statiche? La cosa (...) è venuta prima dell’idea. Senza intenzione di fare chissà che...». E, infine: «Vedere quella ruota girare era molto tranquillizzante».
Contrariamente a quel che riteneva Gombrich, siamo dinanzi a una tecnica che ha contribuito in modo decisivo a «ridefinire» l’identità dell’arte del XX secolo. Una scandalosa invenzione, che ha esercitato una dirompente — e talvolta dannosa — fascinazione su intere generazioni di creatori. Un’invenzione che indica uno iato: un punto di non ritorno.
Guidato dal bisogno di afferrare la realtà nel momento in cui sta per dissolversi, Duchamp supera ogni mimesi. Sceglie di non rappresentare più il visibile: ne presenta segmenti avulsi dall’insieme. Sperimenta raffinate tautologie, arrivando a far coincidere le parole e le cose: anzi, sostituisce le cose alle parole che le designano. Risale a quella che, con Foucault, potremmo definire una «lingua anteriore a Babele». Poco sensibile agli aspetti della manualità, si concentra sulla fase dell’ideazione, invitando lo spettatore a portarsi al di là della pura forma, per soffermarsi su quella che è stata chiamata «l’estetica del significato». È come un giocatore di scacchi, che effettua lievi mosse. Con la sapienza di un alchimista, preleva elementi veri dal loro contesto abituale, per «rilocarli» in un museo o in una galleria, in modo da dar loro segrete valenze metafisiche. Estratti dalla «prosa del mondo», questi elementi vengono defunzionalizzati. Per acquistare un’inattesa aura: addirittura una sacralità. Come accade in Fountain (del 1917): un igienico capovolto, che diventa simile, per ricorrere a un’immagine di Apollinaire, al «Buddha della stanza da bagno». O a un’implicita maternità.
Il senso di questi spostamenti è di tipo avanguardistico. Insofferente nei confronti di ogni possibile «integrazione» dell’artista nella società, Duchamp mira a sfidare le tentazioni di tipo mercantile: vuole portarsi al di là delle mercificazioni. Non si tratta di motti di spirito. Né di facili trovate. Piuttosto, siamo di fronte a opere dietro cui si celano riflessioni, dubbi, cautele. Perché Duchamp non crede affatto nella velocità, né nelle approssimazioni. L’arte autentica non va fatta in fretta. È nemica della rapidità: «Le cose importanti devono essere realizzate con lentezza». Il sogno profondo: non stupire, né inseguire choc effimeri, ma ricercare la bellezza, la meraviglia.
Queste complessità hanno influenzato in maniera cruciale molti figli più o meno illegittimi di Duchamp. Forse, egli è stato la «voce» che ha lasciato più echi sulle generazioni successive di artisti. Finanche più di Picasso. Le ragioni di questa fortuna sono evidenti. Mentre il padre del cubismo è in possesso di una maestria manuale prodigiosa e di un talento visionario inimitabile, Duchamp ricorre a gesti semplici, elementari, minimi. Che riescono a suscitare immediato incanto.
Ecco quel che è accaduto. Come Duchamp si è «impossessato» di ruote di biciclette, di igienici e di scolabottiglie e li ha risemantizzati, così tanti suoi eredi diretti o indiretti si sono «impossessati» di un sofisticato artificio come il ready made, spesso però senza riuscirne a cogliere il senso profondo. I duchampiani propongono happening, performance, installazioni: tendono a non attribuire più alcuna centralità al fare con le mani, concentrandosi soprattutto sul repêchage oggettuale. Ma, talvolta, si rivelano incapaci di sfiorare le trame sottese alle sottigliezze intellettuali di Duchamp, come è emerso da un’interessante mostra tenutasi a Pavia nel 2008 (Dadada, curata da Bonito Oliva).
Rare le eccezioni. Man Ray, che si appropria di cose di uso comune, per generare effetti stranianti: si pensi al ferro da stiro attraversato da chiodi. O Manzoni, che inscatola le proprie feci (Merda d’artista) o il proprio respiro (Fiato d’artista) o utilizza le michette di pane per allestire composizioni modulari. O Kosuth, il quale, sorretto da una forte attenzione linguistica, rifiuta ogni referenzialismo: e, per investigare sulla specificità della sintassi dell’arte, assume una sedia, e le affianca una fotografia e una definizione del dizionario. O Kounellis, che, in una leggendaria mostra romana del 1967, porta dentro la cornice impersonale di una galleria «momenti di vita» (dodici cavalli). O Beuys, il quale, animato da tensione utopistica, si interroga sul rapporto tra natura e civiltà: e, in un collage potente, collega un limone a una lampadina, alludendo all’energia rigenerante della terra. O anche Cage, che, nei suoi concerti, cattura sonorità vere, approdando a dissonanti ready made musicali.
Su un fronte diverso, si situano gli «apocalittici» — da Cornell a Spoerri, da Kaprow a Brecht, da Maciunas a Nam June Paik, da Yoko Ono a Sarenco, da Ben Vautrier a Hirschoorn — i quali preferiscono accatastare rovine del presente, evocando atmosfere di un’imminente apocalisse. Su un fronte ancora diverso incontriamo gli «integrati». Ci riferiamo a personalità pop e post-pop come Warhol, Oldenburg e Koons, i quali non si limitano a prelevare cose. Ma decidono di «rifare» alcuni prodotti industriali (come le scatole di Brillo o le Campbell), alterandone le proporzioni, fino a renderli monumentali.
Da questo escamotage muoveranno i «duchampiani mediatici» come Murakami, Hirst, Orozco e Cattelan, i quali mettono in scena, spesso con materiali desunti dal reale, occasioni di stupore e di sorpresa. Attingendo a un ricco archivio di linguaggi (televisione, fumetti, videogame, fotografia pubblicitaria), inseguono situazioni spettacolari, per catturare subito l’attenzione e alimentare polemiche, dibattiti.
Proprio i «mediatici» tendono a indebolire le intuizioni di Duchamp. Intuizioni uniche e irripetibili che, quando vengono replicate, diventano subito vuoti esercizi manieristi. Forse, perché l’autore della Ruota di bicicletta non poteva avere discepoli, ma solo imitatori.
Con straordinaria lucidità, lo stesso Duchamp aveva previsto questi «abusi». È il destino di un tempo fragile, aveva detto in una profetica intervista del 1964, nella quale aveva parlato del Novecento come di un secolo dominato da «forme artistiche (...) frivole, leggere, più o meno decorative», incapaci di durare. «Tutto ciò ha un nome: arte veloce, arte per il momento presente, cui non importa nulla del futuro o del passato. Quando fai una cosa non la fai in cinque minuti o in cinque ore, ma in cinque anni. Io penso che la lentezza dell’esecuzione possieda qualcosa che rende più probabile produrre un’opera (...) che a distanza di cinque secoli verrà ancora considerata importante». Sono, queste, parole su cui i duchampiani di oggi dovrebbero riflettere.
Vincenzo Trione