Paolo Di Stefano, la Lettura (Corriere della Sera) 03/03/2013, 3 marzo 2013
MIO FIGLIO E’ UN ORFANO
La famiglia in Italia vince sempre. Anche in letteratura. Anche nel mercato editoriale. Cadono i governi, crollano i partiti, la politica langue, ma i rapporti familiari sono una narrazione che non smette mai di affascinare: scrittori e lettori, scrittrici e lettrici. Intendiamoci, è un leitmotiv che percorre dalle origini la storia della letteratura italiana e non solo. Ma i temi familiari nei romanzi italiani degli ultimi tempi sono una presenza abbagliante capace di raccogliere un gradimento che non si riscontrava da tempo: rifugio, nostalgia, ferita, ripensamento, nuovo investimento, spazio di vita vera e luogo di invenzione. Si direbbe che il filone delle relazioni sentimentali e generazionali è, nella narrativa domestica, il pendant presentabile del «mommy porn» da Sfumature. E non è detto, ovviamente, che sia meno perturbante, anzi.
Ciò che colpisce è la varietà di prospettive con cui la letteratura guarda alla famiglia. Sembra intanto di intravedere un netto discrimine di genere. Gli scrittori maschi che si interrogano sulle figure paterne non sono certo una novità e bisognerebbe risalire a ben prima della famosa lettera di Kafka per rintracciarne le radici. Il fatto è che negli ultimi due anni abbiamo avuto, su questo versante, esemplari autobiografici di rara bellezza, a cominciare dal racconto di Sandro Veronesi (Profezia, del 2011), per proseguire con Vita e morte di un ingegnere di Edoardo Albinati (2012) e per concludere con il nuovo romanzo di Valerio Magrelli, Geologia di un padre. Tutti scrittori anagraficamente vicini, nati cioè negli anni Cinquanta. Interpreti di quell’evaporazione della figura paterna di cui tanto parlano i sociologi e gli psicologi, si soffermano non a caso sulla fase del declino fisico del padre e della sua perdita. Magrelli si definisce «orfano ad honorem», ma non dimentica di essere genitore a sua volta. Ci dice, tra l’altro, che si impara a essere figli troppo tardi: ti senti più vicino a tuo padre solo quando non c’è più o sta per andarsene. Ecco il sentimento dominante: «Morto, il padre divenne più forte di quanto fosse stato da vivo», è un pensiero di Freud che Magrelli pone in epigrafe. Il suo libro cerca di testimoniare questa forza postuma (la «ricostruzione di una decostruzione»), per farne oggetto di trasmissione. «Dopo la morte di mio padre — ricorda l’autore —, pensai di regalare a mio figlio il suo rasoio elettrico: una specie di staffetta generazionale, per proseguire nella linea maschile della famiglia». Non sarà insensato chiedersi, a un certo punto, chi realmente sia il padre del titolo: Giacinto, padre di Valerio, o lo stesso Valerio, padre a sua volta? C’è qualcosa di caproniano (ricordate Il conte di Kevenhüller?), un rispecchiamento spaesante, una specie di vertigine che spiega il desiderio di rievocare il genitore: «Forse perché mi manco. È come se soffrissi per la mia morte». E c’è sempre un dolore, un risentimento da rimuovere, attraverso la scrittura. Come l’immagine di un padre ingegnere (come quello di Albinati!) che costruisce le villette a schiera esattamente sul prato in cui giocò con il figlio: «La speculazione paterna ebbe luogo nel mio recinto più sacro, qualcosa come la spianata del Tempio». Espropriazione sentimentale a scopo economico.
È curioso come il rapporto padre-figlio trovi un suo equilibrio ideale solo laddove si registra uno squilibrio di partenza che appare insanabile: quello drammaticamente prodotto dall’autismo del ragazzo. È nell’emergenza, ancora una volta, che la comunicazione si rivela possibile. Il vero nemico è la normalità. Si veda quel curioso oggetto letterario che è Se ti abbraccio non aver paura di Fulvio Ervas, che nello spirito (non nel ritmo profondo o nello stile) potrebbe ricordare un capolavoro degli anni Settanta, come Fratelli di Carmelo Samonà, dove l’ostacolo da superare è la malattia mentale. Per Ervas il rapporto tra padre (sano) e figlio (malato) trova una ludica armonia grazie alla decisione di intraprendere un viaggio «on the road» per gli Stati Uniti, il Messico, l’America Latina: «Per tre mesi la normalità è abolita, e non si sa più chi è diverso. Per tre mesi è Andrea a insegnare a suo padre ad abbandonarsi alla vita». Dalla relazione a due la mamma è rimasta esclusa. Ma durante il volo di rientro, dopo le settimane della trasgressione, affiorano le nuvole nella testa del genitore. Ancora una volta un pensiero luttuoso: «Penso a una cosa ovvia: io e la mamma di Andrea un giorno ce ne andremo. E questo produrrà un’altra conseguenza ovvia: Andrea rimarrà da solo per almeno una trentina d’anni. Su questa terra». La famiglia diventa l’unica possibilità di sopravvivenza per una creatura geneticamente chiusa allo scambio sociale e il suo futuro di orfanità si presenta come «un deserto di affetti».
La scrittura, come un pettine, cerca di sanare le ferite, fa affiorare memorie e nodi mai risolti. È il senso del romanzo più fortunato dell’anno (con il «memoriale» di Ervas): quello di Massimo Gramellini, Fai bei sogni, raro caso recente di omaggio maschile alla madre (si sa che oggi la figura più in discussione nell’ambito familiare è il padre). «Incominciavo a odiarla perché non tornava», così l’adulto ricorda il se stesso bambino rimasto solo con papà. Anche qui, ovviamente, si tratta dell’ultimo esempio di una lunga trafila di orfani non proprio ad honorem, compresi autentici capolavori come Huckleberry Finn e Oliver Twist. Siamo sempre all’interno di un immaginario familiare luttuoso, dove la normalità stavolta diventa una chimera per il bambino rimasto senza madre. E pure Gramellini scopre di aver amato suo padre pressoché in articulo mortis, quando cioè apprende dell’aggravarsi della malattia. E viene ricambiato così dal genitore: «Non ho capito mai niente di te. Però sì, ti ho voluto bene. Sulla fiducia».
Sulla fiducia. Speranza e fiducia nella famiglia non vengono meno, anche quando se ne narrano le tragedie e le fratture. Nostalgia di una famiglia possibile è quella che affiora dalle pagine autobiografiche di Susanna Tamaro, Ogni angelo è tremendo, dove l’immagine paterna è un ritratto di irresponsabilità impietoso: «Se un procuratore è stato mai mio padre, è stato un procuratore di guai». Un uomo che viveva al di sopra dei propri mezzi, con una spider fiammante, senza preoccuparsi che i figli avessero un cappotto. Una madre che cercava di salvare il salvabile di una vita coniugale alla deriva: «Quando le cose intorno a lei — intorno a noi — cominciavano a sbriciolarsi come tenera roccia di tufo, cercò per un po’ di puntellare, di resistere, di proteggere i suoi figli dallo sfacelo. Fingeva la normalità, mentiva per nascondere le trame precocemente logore del loro rapporto». Non solo: il degrado del padre, in preda all’alcol, contagia la madre, che abbandona la dolcezza di un tempo, diventa un mostro cattivo e comincia a considerare i figli una zavorra, il segno del fallimento. Alla giovane protagonista non resta che rifugiarsi nella solitudine della letteratura e nella bellezza infinita della natura. E la famiglia rimane un rimpianto, o meglio un fantasma, un corpo freddo, come quello del padre trovato in casa della scrittrice sotto un lenzuolo bianco. Il romanzo genealogico di Tamaro è di insolita crudeltà, ma alla fine, di fronte al cadavere del padre, compare un accenno alla parola «perdono».
Ben più «compromesse» con la vita coniugale tipica di questo tempo liquido sono altre scrittrici familiari che escono dal circolo strettamente autobiografico. Nella dialettica irrisolta tra convenzione e trasgressione, tra superficie rassicurante e scarto drammatico si risolve anche l’immersione di Daria Bignardi (L’acustica perfetta) nella contemporaneità dei rapporti di coppia. Arno e Sara sembrano felici, ma sotto la superficie liscia della quotidianità vissuta con tre figli si agita un enigma mai svelato: la donna, magari amata da sempre, resta comunque un oggetto misterioso per il marito. Nel mancato rapporto tra quel tipo di amore e l’autentica conoscenza si produce una vertigine. Il quieto tran tran familiare è un inganno.
Cristina Comencini, nel suo romanzo Lucy, racconta il complesso intreccio di precarietà sentimentali dentro un cerchio familiare mobile, aperto, in cui i legami si disfano e si riannodano, i destini non sono più dolorosamente segnati per sempre, le separazioni (come quella provocata dalla fuga di mamma Sara) provocano traumi che non sono irrimediabili, il passato confluisce nel presente senza devastarlo, le rovine possono ricomporsi in nuovi edifici sentimentali. Anche qui, il vero nemico è la normalità convenzionale. Lo dice benissimo l’epigrafe di Alberto Salza: «In sostanza, solo l’anormalità può evolversi. La norma si estingue. Handicappati, emarginati, alieni e così via, "faranno" l’uomo del futuro». E proiettata verso il futuro è anche la scrittura, come quella che l’autrice presta come un salvagente alla sua protagonista, al punto che l’ex marito, leggendo le sue storie, finalmente potrà dire con fierezza: «È stata mia moglie, l’ho scelta bene, una donna complicata, difficile come diceva mio padre, ma nuova, come la notte. E se qualcuno scriverà la nostra storia, potrà dire di me: non ha avuto paura di amarla». Le distanze, insomma, non sono incolmabili, anzi possono imprevedibilmente capovolgersi in comprensione. La voglia di aprire spiragli sembra provenire dalle donne, più consapevolmente immerse nel fuoco della controversia contemporanea. Ma si sa, a scanso di equivoci, che tra comprensione «socio-psicologica» della realtà e qualità letteraria non c’è alcun rapporto.
Paolo Di Stefano