Michele Farina, la Lettura (Corriere della Sera) 03/03/2013, 3 marzo 2013
COME TRAUMI DI GUERRA. UN MILIONE DI INVISIBILI CON UN PASSATO SBIADITO
In Italia ci sono almeno un milione di persone con la malattia di Alzheimer. Un milione di invisibili. Tutti ne sentiamo parlare, molti hanno un conoscente o un parente che ce l’ha o l’ha avuta. Ognuno ha la sua dose di episodi da spendere su questi malati (quasi tutti) senili, non sempre belli ed «eroici» come la storia dei tifosi scozzesi che «rinascono» davanti a immagini di vecchi gol. Tutti abbiamo un episodio da raccontare con imbarazzato stupore. C’è il cuoco che non sa più usare le posate, c’è l’anziana insegnante nella casa di cura che, quando arrivano i parenti degli altri ospiti, li prende per genitori venuti a scuola a parlare del rendimento dei loro figli: «Cara signora, il Carlo non si applica, non so più cosa fare con lui…». C’è lo scrittore sessantenne, con un vocabolario che neanche la Treccani, che adesso è chiuso in un ospizio e non riesce a dire una parola. Ci sono un milione di storie così intorno a noi, da raccontare a mezza voce e poi scacciare con il pensiero. Perché l’Alzheimer è qualcosa che mette a disagio, ci fa paura, qualcosa di cui in fondo si prova vergogna.
Il cervello rimpicciolisce, si ritira a poco a poco. Molto più rapidamente invece si ritira il mondo fuori: gli amici, la società. Non per cattiveria. Magari per imbarazzo. Per pudore. Per una forma di rispetto. Non si sa cosa dire, come comportarsi con un individuo con gli occhi vuoti sempre più spaesato, che non ricorda più il nome delle cose, che non sa se è estate o inverno, che sta dimenticando chi è. L’ultimo rapporto dell’Organizzazione mondiale della sanità dice che lo «stigma legato all’Alzheimer contribuisce all’isolamento sociale dei malati e delle loro famiglie, ritardando la diagnosi e la ricerca di aiuto».
Su questi due ultimi aspetti il ritardo va diminuendo, con tutti gli interrogativi che si aprono. Nuovi esami (costosi) permettono di individuare, con grande anticipo rispetto all’insorgenza della malattia, l’accumulo delle due proteine bastarde accusate di soffocare i neuroni. Ma poiché non si è ancora trovato il modo di guarire, molti (per esempio l’associazione dei medici di base in Francia) si chiedono: che senso ha dire a qualcuno che tra qualche anno avrà l’Alzheimer se tanto per ora non c’è rimedio? Non gli rovini la vita? Quesiti etici che rispetto a qualche anno fa sono quasi un lusso. C’è una cosa rimasta molto simile al passato, che lusso non è. L’isolamento. Da noi in Italia più che in altri Paesi.
Un milione di invisibili. L’Italia è piena di Unità di valutazione Alzheimer (Uva) create nel 2000 dal servizio pubblico. Banalizzando: ti fanno i quiz per la memoria, danno ai tuoi parenti la diagnosi. Ti seguono per un po’. «Ci vediamo tra sei mesi». È il progetto Cronos. Se incrociate su Google le parole «Alzheimer» e «ministero della Salute» i primi risultati che appaiono sono datati 2002. Nel sito del ministero, al capitolo demenze, ci sono le stime mondiali su quanti saranno i malati nel mondo nel prossimo futuro, ma non si dice quanti siano in Italia oggi. Dove siano. A casa loro o nelle case di riposo. È un piccolo segno.
È vero che non c’è guarigione, pochi farmaci cercano di frenare il declino cognitivo e l’insorgere delle disabilità, migliorando per quanto si può la «comunicazione» tra neurone e neurone. Ma la cura c’è, o dovrebbe esserci. Nel senso del Piccolo Principe che si prende cura del fiore. C’è bisogno di tanta cura spalmata nel tempo. Dopo l’apparire dei primi sintomi la malattia ti spegne il cervello generalmente nell’arco di dieci anni. Per questo l’assistenza è lunga. E costosa. La malattia vale l’1% del Pil mondiale. In Italia migliaia di professionisti si curano dell’Alzheimer e delle sue «vittime di guerra». Guerra? La filosofa francese Catherine Malabou nel libro Les nouveaux blessés ne parla proprio in questi termini: «I malati di Alzheimer si comportano come i traumatizzati di guerra».
Nelle trincee italiane c’è un esercito (più o meno insufficiente a seconda delle situazioni) di medici, ricercatori, infermieri, badanti, professionisti o familiari o volontari chiamati a prendersi cura di un milione di veterani che hanno perso la via di casa. Casa? «Andiamo a casa», diceva mia madre sbigottita di fronte alla cucina dove ci aveva nutrito per una vita. E la nostra risposta di figli, banale e lancinante, ripetuta stupidamente e testardamente anziché deviare con dolcezza il discorso, o andare da qualche parte: «Mamma siamo a casa, siamo già a casa». Casa comune: Paese. In Italia ci si cura dell’Alzheimer, ma senza la strategia nazionale, razionale e appassionata di un Paese che invecchia come nessun altro (a parte il Giappone). Manca un grande piano (anche finanziario) pubblico come quelli messi a punto altrove nel mondo: dalla Francia di Sarkozy agli Stati Uniti di Obama, dal Giappone all’isola Mauritius. Nel rapporto dell’Oms l’Italia non è citata una volta. Perché siamo un Paese virtuoso o perché la nostra esperienza (per esempio i grovigli burocratici delle commissioni che autorizzano l’assegno di invalidità) non è un modello per nessuno?
L’imbarazzo, l’isolamento, la vergogna portano anche all’autoisolamento. L’Alzheimer di un grande allenatore, che ha vinto scudetti di serie A, è tenuto nascosto come fosse una colpa. C’è l’eclisse di una straordinaria attrice, lo scrittore chiuso nel suo labirinto. Certo, è un diritto, tramontare in disparte. È ragionevole per le famiglie proteggere i propri cari dalla «pornografia della malattia», dalle intrusioni dei media, dal bisbiglio. Come Silvio Piola, il più grande bomber italiano di tutti i tempi, spentosi nel 1996: si dice avesse a disposizione un piano intero di una casa di cura e che facesse ancora gol contro i muri. Ma siamo sicuri che questa scelta non sia dettata (forzata) anche dal contesto sociale? Secondo l’Oms i malati dovrebbero restare nella società, non spinti ai margini magari per una distorta forma di «rispetto della privacy». In altri Paesi ci sono stati diversi casi di personaggi pubblici che ai primi stadi dell’Alzheimer hanno fatto outing. Da noi, dice Gabriella Salvini Porro, presidente della Federazione Alzheimer Italia, neanche uno. Questa «sorta di vergogna», come la definisce Salvini Porro, fa parte della nostra cultura? Negli Usa Pat Summitt, leggendaria coach di basket femminile, ha detto di avere l’Alzheimer davanti a uno stadio gremito di folla. Protagonismo? Forse. Ma testimonianze come quella di Pat aiutano a diminuire l’isolamento degli invisibili. E a smuovere i governi che dimenticano.
Michele Farina