Alberto Melloni, Corriere della Sera 03/03/2013, 3 marzo 2013
GLOSSARIATO (ANTICO E MODERNO) PER LEGGERE IL CONCLAVE
La Chiesa latina nel secondo millennio della sua storia ha guardato con sospetto i tentativi di minimizzare il ruolo del Papa. Rompendo la prudenza precedente i riformatori gregoriani fissano questa istanza nel secolo XI. Come dice il loro «dictatus papae», il Papa non può essere giudicato da alcuno, chi non è in comunione con lui non è cattolico, la sua sentenza è irriformabile, solo a lui i principi devono baciare i piedi, appena è eletto «efficitur sanctus» cioè reso santo. Tale tendenza si sviluppa: se vuole il Papa «può interpretare ed aggiungere al Vangelo», si dice nel Duecento e Bonifacio VIII comanda la sottomissione di ogni creatura al Pontefice. In mille anni vengono dati solo due colpi di freno. In pieno medioevo si ripete e insegna che il Papa che devia della fede («a fide devius») non è tale. E poi a fine Ottocento, al Concilio Vaticano I, la rigorosa perimetrazione del primato e dell’infallibilità. Perché ciò che una vulgata ignorante considera la «creazione» di una doppia prerogativa autocratica è stata in realtà una limitazione. Talmente severa che l’unico atto infallibile del magistero novecentesco è una riga della enciclica «Evangelium vitae» dove si dice che l’aborto è «disordine morale grave». Molta meno attenzione è stata messa nell’evitare il rischio opposto, cioè la massimizzazione del ruolo del Papa. E mai come in queste ore di preparazione del Conclave ce ne accorgiamo. Le anime belle si consolano con la fantasia pseudomistica che il Conclave sia un congegno dove di fatto sorteggia Dio, come se non fosse lui che ha dato alla Chiesa una carne debole.
E intanto il tamburo mediatico, cresciuto in quella che un grande teologo come il cardinal Congar chiamava «papolatria», racconta il Conclave come luogo di «manovre», dove 120 celibi lordi di ambizioni fingono di discutere per nascondere chissà che. Manovre in cui avrebbero un gran peso i gossip, che a spanne valgono il 3% di quello che i cardinali sanno l’uno dell’altro. Manovre condotte all’ombra di un gesto — la rinunzia di Benedetto XVI — che come dice un ritornello sbalorditivo ha dato a una figura «quasi-divina» (ma quando mai?) una dimensione «umana»: un gesto consumato in solitudine e finito senza clamore se neppure la Chiesa italiana, di cui Benedetto era primate, non ha mosso i pullman che avevano riversato a Roma i milioni di fedeli venuti a dar l’addio a Giovanni Paolo II.
Il fatto che culture meno familiari al cattolicesimo inseguano massimalismi estranei alla dottrina cattolica è cosa che può essere spiegata e forse deve essere meglio spiegata. Va insegnato che tutti i vescovi siano «vicari di Cristo», che secondo il dogma cattolico a tutti per la consacrazione episcopale appartenga il compito di governare la Chiesa universale con Pietro e sotto Pietro (la preferenza per il «sotto» fu denunciata da padre Cantalamessa nel 2005). Va raccontato che contro una deriva autocratica di questa retorica hanno combattuto i grandi Papi del passato recente. È finito il bacio al piede e le udienze in ginocchio (Roncalli), perfino la genuflessione alla benedizione (Montini), il noi maestatico (Luciani), la distanza fisica dalle masse (Wojtyla), l’uso del triregno nello stemma pontificio (Ratzinger). E con la rinunzia del 2013 la sottolineatura che sul piano del sacramento e dunque della grazia il Papa è il vescovo di Roma, questa catechesi in atto, è diventata ancora più netta.
Ma sulla deriva che a forza di veder manovre finirà per azionarle stanno riflettendo anche i cardinali elettori. D’altronde dai tempi di Gregorio Magno il criterio per scegliere i capi della Chiesa, è uno solo. «Si sanctus oret, si doctus doceat, si prudens regat»: se è santo che preghi, se è dotto che insegni, se è prudente governi. Nel 2005 questa regola fu subissata dall’affetto e dalla paura. Dalla scelta di Martini, candidato di bandiera che riversa i propri voti su Ratzinger, dalla convinzione del collegio che vi fossero due soli candidati possibili. Questa volta c’è un dialogo aperto e saggiamente lento: una lentezza che forse sfiancherà la grancassa mediatica o la convincerà che i cardinali si votano per scegliere il pastore, ma quando parlano devono parlare del gregge, del suo pasto, della lana. Senza manovre.
Alberto Melloni