Stefano Mancini, La Stampa 4/3/2013, 4 marzo 2013
OLSSON, LA LUCIDA FOLLIA DEL LUPO SOLITARIO
La fuga è una scelta coraggiosa: serve a uscire dal gruppo, a lanciare una sfida, a tentare di emergere. Se funziona, vinci. Se fallisce, la massa ti raggiunge e sorpassa, perché correre da soli costa fatica. Johan Olsson, fondista svedese di successo, ha sperimentato ieri per due ore questa metafora dell’esistenza. Si è presentato alla 50 chilometri a tecnica classica, gara conclusiva dei Mondiali di sci nordico in Val di Fiemme, con l’ambizione di battere i «cugini» norvegesi e di regalare il primo oro alla sua Nazionale.
La tattica viene studiata a tavolino con il suo preparatore: attaccare dopo una decina di chilometri, tirarsi dietro un gruppetto di ambiziosi e piazzare l’attacco decisivo nel finale. L’idea è buona, ma lo sport riserva imprevisti e sorprese: il suo unico compagno di fuga è lo svizzero Dario Cologna, che però cade e viene raggiunto dagli inseguitori. Olsson si ritrova da solo: davanti ha ancora 30 chilometri di fatica sotto un sole che rende la neve pesante, mentre alle spalle lo puntano i più forti colleghi del mondo che si danno il cambio, si aiutano e organizzano l’inseguimento. «Il vantaggio di sciare in gruppo è che gli altri lavorano per te», spiega Marco Albarello, campione del mondo e olimpico oltre che ct azzurro a Torino 2006. Esistono un vantaggio tecnico, che consiste nello sfruttare la scia riducendo la fatica, e uno psicologico, perché i compagni ti danno un punto di riferimento.
Quanto può resistere un fondista in fuga solitaria? Cinque, forse dieci chilometri. Quindici in casi estremi. Ma trenta sono una follia: se nessuno ha mai tentato prima di correre in testa fin quasi dall’inizio ci sarà pure una ragione. Olsson lo sa, in quella situazione non ci si è messo di proposito. Il difficile, durante gli sforzi estremi, è mantenere la lucidità, perché la maggior parte dell’ossigeno va ai muscoli. «Ho pensato di rallentare un po’ e di farmi raggiungere - racconta il campione svedese -. Sarebbe stata la cosa più logica». Già, la logica: ma ha qualcosa di razionale la fuga di Fausto Coppi al Giro d’Italia del 1949 nella famosa tappa Cuneo-Pinerolo ? Il campionissimo scala da solo in sequenza i colli Maddalena, Vars, Izoard, Monginevro e Sestriere, tagliando il traguardo con quasi 12 minuti di vantaggio su Gino Bartali. Lo stesso genere di follia animerà in epoche più recenti Marco Pantani, che al Tour de France 1998 (poi vinto) scappa sul Galibier e arriva 50 km dopo a Les Deux Alpes con quasi 9’ di vantaggio sul rivale diretto Jan Ullrich. A chi gli chiese che cosa passa nella testa di un atleta mentre affronta in solitudine la fatica estrema, il Pirata rivelò la propria filosofia: «Quando in salita sono sfinito cerco di accelerare, così accorcio i tempi dell’agonia».
Ieri Olsson avrebbe dovuto rivedere la strategia e passare al piano B: rientrare nel gruppo, risparmiare energie e giocarsela nell’ultimo giro di pista. Ma, forse per il cervello annebbiato, forse per i muscoli che invece giravano a mille, ha deciso di andare avanti. «Stavo bene e mi sono detto: continuiamo a spingere e vediamo che succede». In questi casi gioca un ruolo importante il fattore sorpresa: il gruppo ragiona secondo logica e aspetta che il fuggitivo si esaurisca lentamente. Albarello ricorre al paragone ciclistico: «Un’impresa del genere equivale a correre la Milano-Sanremo controvento. Olsson ha avuto un bel coraggio». I fondisti sanno che la crisi arriva come una mazzata tra il 37º e il 40º chilometro. Se sei solo rischi di impazzire. O di cedere di schianto, che per un agonista è la stessa cosa. Olsson viene colpito da crampi alle braccia ed è come se su un’auto 4x4 la trazione integrale smettesse di funzionare. Ma lui gestisce il dolore e approfitta di una discesa per fare stretching. Poi si volta. Lo fa sempre più stesso, segno che la benzina si sta esaurendo e le spie della riserva cominciano ad accendersi in sequenza: fiato corto, acido lattico nei muscoli, pensieri negativi, una stanchezza che ti urla di fermarti. La sindrome dell’atleta in fuga. «È stato il momento peggiore - racconta -. Per fortuna le gambe funzionavano ancora e questo mi ha dato fiducia».
Nessuno si aspettava che resistesse così. Quando Cologna prende in mano la situazione e si lancia all’inseguimento ormai è tardi. Gli ultimi due chilometri raddoppiano le forze del campione solitario: un po’ è l’«effetto Pantani», cioè la voglia di concludere in fretta l’agonia, un po’ la produzione di endorfine, droghe naturali che il nostro organismo secerne per attenuare il dolore.
Il pubblico è un altro fattore pesante: quando sono testimoni di un evento straordinario, gli spettatori incoraggiano il folle di turno senza distinzioni di bandiera. A soffiare su Olsson, ieri nello stadio di Lago di Tesero, c’erano 40 mila persone entusiaste (compreso il suo re, che per ragioni di protocollo non ha poi potuto premiarlo sul podio). E lui ogni volta reagiva a quelle testimonianze d’affetto accelerando sulla salita appena dopo le tribune.
Giorgio Di Centa, 19º al traguardo, si inchina: «In tanti anni di carriera non ho mai visto una gara del genere, Johan entra nella storia del fondo». L’unico precedente risale ai Giochi di Salt Lake City 2002: Johann Mühlegg, tedesco naturalizzato spagnolo, ridicolizza gli avversari, però poi viene squalificato per doping. «Olsson è stato bravo a gestire le energie - dice ancora Albarello -. Se ha vinto, è innanzitutto perché ne aveva più degli altri». Ai tempi dell’ex ct non c’erano le spettacolari mass start, ma le partenze a cronometro: i fondisti erano sempre da soli, i riferimenti li davano gli allenatori. «Ma per resistere - conclude Albarello - la tattica è sempre la stessa: devi pensare a non andare in crisi».