Flavia Amabile, La Stampa 4/3/2013, 4 marzo 2013
NELLA FAVELA ROMANA DOVE VIVONO LE COLF DEI PARIOLI
I resti delle baracche nell’acqua del fiume marrone e maleodorante. Fango ovunque e l’odore acre di plastica bruciata nell’aria. Polli, cani che abbaiano quando sentono un estraneo, reti arrugginite a fare da cancello e recinzione. Sembra Manila, e invece è Roma. Il fiume è l’Aniene che in questo punto sfocia nel Tevere, e questa è la sua piccola «città della gioia», la sua favela più duratura.
Sono vent’anni che generazioni intere di filippini vivono qui e vanno a lavorare nelle belle case dei Parioli a spolverare soprammobili e accompagnare bambini capricciosi a scuola per poi tornare a dormire come tutti nella loro casa, con la differenza che la loro non è davvero una casa, ma una baracca su un fiume melmoso, tetto di lamiera, pareti di legno e muratura, l’acqua che per alcuni arriva dal campo nomadi vicino, le fogne che non esistono, l’energia elettrica da dividere perché non ce n’è abbastanza per tutti. Qui il freddo è gelo da ottobre in poi, il caldo è torrido da maggio in poi, e quando piove troppo si rischia la vita. È accaduto quest’inverno e, per fortuna, sono arrivati a portarli via, altrimenti qualcuno sarebbe finito nel fiume come le baracche sfondate dall’acqua.
È il buco nero di Roma, il luogo dove le contraddizioni di una metropoli del Terzo Millennio si fondono tutte insieme fino a far crollare ogni certezza. Ci abitano 19 famiglie di filippini, molte con figli piccoli, e poi alcuni peruviani, alcuni colombiani, qualche rom, ma anche italiani. La strada di accesso si chiama via della Foce dell’Aniene, è un viottolo abbastanza nascosto e sconosciuto che parte dall’Olimpica e scende nell’indifferenza generale giù verso il fiume. L’asfalto scompare subito, il panorama è una selva di sfasciacarrozze con i loro cumuli di resti di auto, un campo rom autorizzato e la campagna che qui è un bosco urbano sporco, incolto, sinistro. A metà della strada iniziano le baracche, i numeri civici delle case scritti a pennellate di vernice sulle lamiere, le cassette della posta con i nomi scritti sopra, i fiori qui e là dove si può. Perché, quando vivi per venti anni in un posto del genere, un po’ di bellezza ci vuole.
È tutto ufficiale e tutto abusivo. I figli vanno a scuola come qualsiasi bambino italiano, i padri vanno a lavorare come muratori e le madri come colf o badanti ai Parioli che da qui sono a due passi. I loro nomi sono sull’elenco telefonico, ogni due mesi arriva il bollettino per pagare la tassa sulla spazzatura, e ormai hanno imparato a fare anche la differenziata. Gli stranieri hanno il permesso di soggiorno, sono regolari. E regolare è anche una parte di queste loro abitazioni. Ma solo una parte. Fra gli abitanti ci sono ragazzi e ragazze che qui sono nati e cresciuti e ci sono persone che fra poco andranno in pensione. Ci sono quelli che sono tornati in patria e hanno offerto la baracca rimasta libera ad altri. Ci sono italiani che hanno avuto in eredità un terreno molti anni fa, quando quest’ansa era una foce selvaggia e forse anche suggestiva, e rom che hanno scelto di abbandonare il campo vicino per vivere qui dove se la sera ti chiudi bene in casa e fuori hai un cane che abbaia almeno sai che ti stanno rubando qualcosa ma non accade nulla di più.
È un vero e proprio quartiere di Roma cresciuto negli anni tra indifferenza e incapacità e mancanza di voglia di offrire altro. Da anni è sotto gli occhi di tutti. Di quelli che dall’altra parte del fiume giocano a calcio e tennis e non possono non vedere. Di quelli che di volta in volta hanno lasciato che la strada si riempisse di baracche ma non dei servizi per garantire un esistenza decente.
Una delle ultime baracche della strada appartiene a Mariam, 43 anni, 4 figli e 8 nipoti, che ha abbandonato il campo rom e si trasferita fra i filippini. Si è costruita il suo rifugio qui: «È più tranquillo. Sono rimasta nel campo per vent’anni ma ero stanca di pulire la sporcizia altrui».
È tutto normale e tutto surreale. La strada finisce con il ponte della ferrovia e una discarica a cielo aperto creata dai rom del campo, un’enorme montagna di rifiuti di ogni genere che viene lanciata ogni giorno verso il fiume. Non tutti hanno il boiler, qualcuno per l’acqua calda si accende il fuoco e mette su un pentolone in mezzo alla strada a bollire. Come riscaldamento si usano le stufe a legna, perché di legno tra il bosco e la discarica non è difficile trovarne. Però ci sono le paraboliche per vedere le televisioni del mondo intero e chi vuole installare una linea wifi potrebbe farlo tranquillamente. Alfredo Ciotti, che qui vive dal 1970, spiega che ci si sta bene: «Il problema non sono i rom del campo ma i romeni che vivono nelle baracchette di plastica sul fiume che vengono di notte qui a rubare». La famiglia Lopez abita qui da dieci anni, sono in quattro, madre colf,padre muratore e due figli piccoli. Per loro va tutto bene, chiedono solo argini più sicuri. «Dovrebbero rinforzare, quest’inverno è crollato tutto da noi. Per fortuna i bambini erano a scuola e noi al lavoro. Ci hanno portati via, ma dopo due mesi ci hanno detto che dovevamo tornare alle nostre case e che avrebbero trovato una soluzione». Quella soluzione che da vent’anni forse nessuno sta cercando davvero.