Roberto Alajmo, la Repubblica 4/3/2013, 4 marzo 2013
PALERMO, QUARTIERE ZEN LA REPUBBLICA DELLA MAFIA
BISOGNEREBBE far venire esperti da tutto il mondo, per studiare quel che succede allo Zen di Palermo. Non solo giornalisti: sociologi, politologi, giuristi. Bisognerebbe organizzare seminari, borse di studio, master e tesi di laurea al solo scopo di interpretare cosa è veramente questo quartiere: un trattato a cielo aperto su mafia e antimafia.
UN CAROTAGGIO esemplare è stato eseguito nei giorni scorsi sulla base della denuncia di una famiglia che s’era stufata di subire ritorsioni e aveva sporto denuncia. Da qui è partita l’operazione di polizia che ha confermato tutti i pessimi luoghi comuni che da sempre circolano sulla Zona Espansione Nord. In sintesi: la cosca locale ha soppiantato integralmente la funzione statale.
Non si tratta solo di estorsioni in cambio di protezione. Allo Zen la mafia eroga servizi annonari e urbanistici. Fornisce allacciamenti alla rete della luce e dell’acqua, riscuotendo le bollette relative. Di più: gestisce una specie di Istituto Parallelo delle Case Popolari. Esiste un’organizzazione che vende (vende!) appartamenti agli aspiranti che si dimostrano meritevoli. C’è pure un servizio di manutenzione per il quale gli inquilini pagano una quota condominale. Tutto perfettamente in regola, per quanto perverse possano sembrare le regole.
Viceversa, se qualcuno sgarra nei pagamenti, viene sfrattato senza complimenti, né sono previsti procedimenti d’appello. Questo era successo alla famiglia che ha sporto denuncia: avevano tardato a onorare un debito ed erano stati sfrattati. Il loro appartamento è stato assegnato a un’altra famiglia, la serratura cambiata. Le loro cose infilate in alcuni sacchi e portate via, a parziale risarcimento del debito. Le foto e i ricordi distrutti a mo’ di sfregio.
In questo caso l’errore dell’Istituto Parallelo delle Case Popolari è stato spingersi troppo oltre nel rendere impossibile la vita di queste persone. La prassi normale consiste nel mantenere la disperazione su livelli fisiologici, lasciando immaginare che ancora ci sia qualcosa da perdere. Lo stato di bisogno deve trovare un punto di equilibrio e mantenersi con minime oscillazioni. Solo così si può dispensare qualche sollievo per i disagi che vengono appositamente creati, secondo il circolo vizioso caratteristico di ogni sottosviluppo.
Stavolta la situazione è sfuggita al controllo dei funzionari della mafia. Un mero errore di valutazione che tuttavia non cambia la realtà dei fatti: a Palermo si calcola che ci siano circa 3.600 case popolari occupate abusivamente e sottoposte alla gestione parallela. Tremilaseicento.
In particolare lo Zen si configura come un’enclave extraterritoriale. Una specie di San Marino. Gli abitanti del quartiere parlano una variante dell’italiano, ma dipendono da un governo diverso. Dipendono, presente indicativo. Non: dipendevano. Anche dopo la retata dell’altro giorno, il problema rimane intatto. Gli arresti sono una cura palliativa, ma niente di più. La sola fase repressiva, per giunta in modalità random, lascia che l’acqua mafiosa riprenda ogni volta la forma del contenitore che l’accoglie. Fermo restando il contesto, ci saranno sempre seconde file di capi e gregari pronti a prendere il posto di quelli finiti in carcere.
Nelle prossime settimane allo Zen tutto rimarrà bloccato, come succede nel resto del paese quando ci sono le elezioni, per esempio. Ma poi si ricomincia.
Lo Zen — che vent’anni fa è stato invano ribattezzato e intitolato a San Filippo Neri, sperando che almeno lui facesse il miracolo di cambiarne il destino — ha sempre rappresentato una specie di esasperazione dei luoghi comuni che riguardano il sottosviluppo in Sicilia. Ma bisogna prendere atto che qui ci troviamo di fronte a una verifica sul campo che non lascia margini di interpretazione.
Il caso dello Zen è da manuale perché dimostra che il vuoto lasciato dallo Stato non produce solo il caos amministrativo, come a prima vista si sarebbe portati a pensare vedendo il degrado generalizzato. Al contrario, genera una forma di illegalità razionale e perfettamente organizzata. Si dice che in politica non esista il vuoto. E nemmeno nell’amministrazione della cosa pubblica: se lo Stato fa un passo indietro, un passo avanti fa l’antistato, coi suoi servizi surrogati perfettamente funzionanti.
Allo Zen lavorano molte associazioni di volontariato che concordano nel rifiutare ghettizzazioni e generalizzazioni. Ma lo Zen è uno specchio dove dobbiamo guardarci per forza, se vogliamo risolvere il problema. E accettare quel che racconta lo specchio, cioè che i servizi offerti da Cosa Nostra sono concorrenziali, rispetto a quelli erogati dallo Stato. Sono convenienti. Fin quando le ottime intenzioni dell’antimafia saranno imperniate solo sull’educazione alla legalità, con lezioni puramente teoriche, non ne usciremo mai.
Lo Stato deve esserci, con scuole, caserme dei carabinieri, presidi di ogni tipo. Questo è scontato, sebbene non sempre si verifichi. Ma non basta. La battaglia decisiva consiste nel riuscire a garantire ai cittadini dello Zen servizi migliori e a minor prezzo, rispetto a quelli della mafia. Metterla sul piano della convenienza: l’unica argomentazione davvero convincente, e non solo allo Zen.
Roberto Alajmo, palermitano, è autore di romanzi, racconti e testi teatrali. È stato finalista al premio Strega