Antonella Rampino, La Stampa 3/3/2013, 3 marzo 2013
LE CONSULTAZIONI INFORMALI E LE DUE OPZIONI IN CAMPO
Le consultazioni, quella strategica fase che porta all’incarico e alla formazione di un nuovo possibile governo, si apriranno ufficialmente al Colle il 21 marzo. Ma da oggi, prende avvio al Quirinale una fase che potremmo definire di “consultazioni informali” e che forse, nel labirinto che è risultato da queste elezioni politiche, stavolta è perfino più cruciale delle consultazioni. Il Presidente deve in pratica tessere la trama politica che porterà alla soluzione. Deve sondare tendenze e preclusioni dei protagonisti politici, e individuare la personalità in condizione di portare a compimento l’incarico. Non sembra infatti questa una situazione ideale per “mandati esplorativi”, dato che in genere quando falliscono si va a elezioni, che l’Italia non si può oggi permettere.
Che cosa accadrà dunque dal 21 marzo in avanti è semplice: attraverso le consultazioni il presidente verifica quale protagonista politico può ottenere la fiducia in Parlamento. In un certo senso, e infatti con poco senso tattico già si comporta come fosse tale, il presidente incaricato in pectore è Pierluigi Bersani. E questo perché il famigerato porcellum, che si sarebbe dovuto correggere anche perché contrasta e confligge con vari punti della nostra architettura istituzionale, cerca di “fabbricare” un vincitore grazie a un premio di maggioranza abnorme, e di “fabbricare” pure un premier, visto che permette l’indicazione sulla scheda elettorale del capo della coalizione. E Bersani ha vinto, grazie a quel premio di maggioranza, alla Camera, che dei due rami del Parlamento è il più «politico», e il più rappresentativo.
Bersani non ha tuttavia la maggioranza al Senato, nemmeno in alleanza con la Lista Civica di Monti, e non può allearsi alla bisogna con il Pdl, in un governissimo che in Italia non s’è mai dato. E che è fuori anche dall’immaginazione, ora che Berlusconi è indagato per aver comprato il senatore De Gregorio al fine di far cadere il governo di Romano Prodi. Bersani e la maggioranza che tiene il Pd lo ha detto chiaro, proponendo un classico «governo di minoranza» che il leader democrat chiama «governo di cambiamento», perché è a Grillo e ai grillini - scansando i loro improperi - che chiede sostegno.
Tutte le pubbliche uscite del demiurgo del M5S sono violentemente contrarie a un accordo politico con il Pd, e anche a riconoscere le istituzioni che reggono la vita repubblicana. Ma non sono contrarie, almeno le ultime, a Giorgio Napolitano, che Grillo riconosce come “il mio presidente”: di qui la possibilità che l’autorevolezza di Napolitano possa agire con particolare forza persuasiva la propria moral suasion. Al Quirinale poi c’e’ molto interesse attorno ai cosiddetti “grillini”, che i giornali raccontano (poco) come giovani, competenti, preparati. E si considera che il loro leader non e’ invece in Parlamento, fatto insolito, e che potrebbe giocare un ruolo nel medio periodo.
La sensazione, anche fuori dalle mura del Quirinale, è che si tenterà di verificare se è concretizzabile il sostegno del M5S al «governo di cambiamento» che a Grillo offre Bersani, a una convergenza con il Pd che forse potrebbe costare a Bersani anche quei panni da presidente incaricato.
Dopo, impossibile immaginare altro che non sia qualcosa tra il tecnico e il governo di scopo. Che tenga l’Italia in linea con le direttive europee e cambi il porcellum: potrebbe essere sostenuto sia da Pd che da Pdl. Ma di certo non avrebbe la forza per strappare il risultato, al Consiglio europeo di giugno, di sottrarre ai vincoli di bilancio la spesa per investimenti, e di rilanciare l’occupazione e la crescita. Un governo tecnico di scopo che potrebbe esser guidato dallo stesso Mario Monti, oltre che dai nomi che circolano in questi giorni a cominciare da Ignazio Visco e da Fabrizio Saccomanni. Non un «governo del presidente» perché questo, per esser tale, richiederebbe un prolungamento del mandato del presidente, cioè di Giorgio Napolitano, che ha già detto, innumerevoli volte, di non voler rimanere al Colle.