Federico Rampini, la Repubblica 3/3/2013, 3 marzo 2013
NEL CAMPUS DEI NOBEL
L’ultimo sogno di Barack Obama si sta materializzando in un angolo di Harlem. L’utopia concreta del presidente è un progetto che ci riguarda tutti: espugnare i misteri del cervello umano, per sconfiggere malattie come l’Alzheimer e il Parkinson, l’autismo e la depressione, ma anche per dischiudere nuovi orizzonti all’innovazione scientifica o alla creatività artistica. Prima ancora che il presidente lanciasse ufficialmente la “mappatura del cervello umano”, le ruspe e le gru erano già al lavoro qui a Manhattanville, sotto gli ordini di Renzo Piano. Il progetto
Mind Brain Behavior della
Columbia University è servito da prototipo e ispirazione per questa nuova sfida dell’America nel Terzo Millennio. Un intero campus universitario sta sorgendo a gran velocità; quindici edifici saranno operativi nel 2016. Quasi sette miliardi di dollari d’investimento, 630mila metri quadri di costruzioni avveniristiche, sessantacinque centri di ricerca, migliaia di giovani reclutati dai più celebri premi Nobel delle neuroscienze: l’idea è che le nuove leve di ricercatori siano ancora qui quando i loro progetti giungeranno a conclusione tra venti o trent’anni.
Devo mettermi il casco protettivo per incontrare Piano, in mezzo all’agitazione e al frastuono del cantiere, nel perimetro fra la 129esima e la 133esima strada, la Broadway e la 12esima Avenue. Il grande architetto italiano è ormai una star qui in America: a Manhattan ha già realizzato, tra l’altro, la sede del
New York Times
e del nuovo Whitney Museum, a Chicago l’Art Institute, a San Francisco l’Academy of Sciences, a Los Angeles sarà sua la futura Casa degli Oscar, e poi altri musei a Dallas e Houston. Eppure, perfino per lui c’è ancora spazio per una “prima volta”. Per la Columbia, realizzerà il suo primo progetto di università con un approccio del tutto inedito: disegnare gli spazi della ricerca e dell’insegnamento insieme con coloro che li utilizzeranno, in un dialogo costante coi premi Nobel delle neuroscienze. Inventare spazi fatti apposta per “costringere” professori di discipline diverse a incontrarsi, incrociare idee e metodologie. E mettere tutto ciò al servizio di un tessuto sociale denso, vitale, come il quartiere multietnico di Harlem.
«È un progetto unico al mondo — spiega Piano — anche per le facoltà che coesisteranno in questo spazio. Lo definirei un triangolo ideale del nuovo umanesimo. C’è il polo universitario delle scienze della vita e della mente. A fianco, c’è una scuola d’arte. E infine un centro di geopolitica e studi internazionali, che include lo Earth Institute dove si esplora la fragilità dei nostri ecosistemi. Il progetto è costruire uno scambio costante fra questi tre mondi: la scienza del cervello umano, la creazione artistica, e il governo del pianeta». Chi meglio di un maestro italiano come lui, poteva cimentarsi con questa impresa? «Mi ha affascinato subito, di questo progetto, la prossimità tra scienziati e artisti. Non è casuale, fa parte di un disegno umanistico che ci appartiene ».
Il quartiere dove si stanno innalzando a vista d’occhio le nuove creature di Piano ha un carattere speciale. È a pochi isolati più a nord del campus principale della Columbia University. Delimitato dal fiume Hudson, da Morningside Heights e Hamilton Heights, questo angolo di Harlem fu una cittadella industriale per tutto l’Ottocento. Manhattanville era la prima fermata della ferrovia sopraelevata Hudson River Railroad, un porto merci, un incrocio brulicante di tram, omnibus, carrozze e chiatte fluviali. Quartiere storico della classe operaia, zona di tradizioni manifatturiere, poi trasformata da ondate di immigrazione: ebrei, neri, polacchi, portoricani. «È la New York raccontata dal musical
West Side Story
di Bernstein e qui vicino ci sono tracce di quella storia industriale: l’area del cantiere ospitò un grande deposito per carrozze di cavalli, una centrale del latte, e soprattutto la fabbrica della Studebaker, gloriosa marca di automobili». È questa storia ad avere ispirato i progetti di Piano. «L’America — dice l’architetto — ha spesso sofferto il complesso di non avere una sua cultura, una sua tradizione. Non a caso il campus originario della Columbia University è costruito secondo stili che imitano l’antica Grecia, l’antica Roma. In questo spicchio di Harlem ho potuto usare il linguaggio che è più consono alla storia d’America, cioè quello della sua prima rivoluzione industriale. Ho usato il ferro, come nella ferrovia e metropolitana
sopraelevata».
Il rapporto con il quartiere è importante.
Nelle fasi preparatorie ci furono resistenze.
Molto prima che arrivasse qui Piano,
Harlem era già stata presa d’assalto dalla
gentrification,
la “borghesizzazione”: via via che il vicinato diventava più sicuro e vivibile, già dieci anni fa, i prezzi immobiliari cominciarono a salire e con essi scattò l’invasione di nuovi abitanti, ceti medioalti che si sostituivano ai residenti di una volta.
La Columbia non ha voluto infierire: non intende accelerare questa metamorfosi economica e sociale. In un dialogo con la gente del quartiere, il nuovo campus è stato adattato alle loro richieste.
«Proprio per contrastare la
gentrification
è meglio portare qui cultura, scienza, giovani che studiano, anziché shopping mall. Manhattanville torna alle origini, alla sua vocazione di fabbrica, anche se una fabbrica un po’ speciale: di conoscenze, di creatività. Questo sarà un campus universitario urbano in tutti i sensi, non solo per la sua collocazione ma anche per lo scambio costante con gli abitanti del quartiere più multietnico che ci sia: 30 per cento afroamericani, 30 per cento ispanici, 20 per cento bianchi, e poi asiatici e altri ancora. Tutti i piani terra di questi edifici saranno aperti al pubblico. Sorgerà una clinica al servizio degli abitanti. Al contrario dell’aspetto un po’ intimidente dei campus in stile neogotico di una volta, questo nasce all’insegna della condivisione, dell’accessibilità». La scuola d’arte sarà anche centro di spettacoli, teatro polifunzionale, cinema d’essai, museo aperto al pubblico. È un capitolo che si aggiunge a quella che viene definita Harlem Renaissance, una nuova stagione di vitalità culturale del quartiere.
Se il sogno di Obama sta già crescendo a vista d’occhio, un piano sopra l’altro, con la frenetica velocità dei cantieri newyorchesi, il merito è anche del mecenatismo privato. Le donazioni per la cultura, la ricerca scientifica o l’arte, sono il motore di questa nazione. Piano ormai conosce bene questo meccanismo e tuttavia non ha ancora smesso di stupirsi. «Ho visto con i miei occhi una signora staccare un assegno da duecentocinquanta milioni di dollari». È la vedova di Jerome Greene, costruttore edile morto nel 1999. Una nobile gara di emulazione ha affiancato la vedova Greene a Mortimer Zuckerman: anche lui immobiliarista, nonché editore di giornali (
New York Daily News),
ha donato duecento milioni perché «completamente affascinato dal progetto, dopo aver trascorso tre ore nel laboratorio del premio Nobel per la medicina Eric Kandel». Insieme con Tom Jessell, il Nobel Kandel è uno degli scienziati più assidui nel dialogo con Renzo Piano, per contribuire a immaginare con lui edifici favorevoli alla ricerca, all’incontro di idee, alla cooperazione tra discipline diverse. Kandel incarna questa aspirazione all’incrocio e alla contaminazione: tra le sue opere, oltre ai trattati di neuroscienze, c’è un magnifico saggio che incrocia la psicanalisi freudiana, la pittura espressionista, e la biologia molecolare:
L’età dell’inconscio. Arte, mente e cervello dalla grande Vienna ai nostri giorni
(pubblicato in Italia da Raffaello Cortina).
«Tutto quello che vedo accadere qui — conclude Piano — si sposa con un’idea della scienza come fede laica, un credo galileiano, un mondo che mi piace. E i miei amici scienziati mi assicurano che è solo l’inizio di una meravigliosa avventura. Secondo loro, del cervello umano sappiamo così poco: tanto quanto i medici padovani che trafugavano cadaveri conoscevano del corpo umano ai tempi di Galileo».