Nello Ajello, la Repubblica 2/3/2013, 2 marzo 2013
LA SOTTILE LINEA ROSSA TRA NORD E SUD D’ITALIA
Non esiste argomento più problematico della questione meridionale. Essa desta di volta in volta emotività, distacco, abominio. Suscita animati dibattiti, oppure è vittima di un’eclisse che appare definitiva. Ma definitiva non è. E come potrebbe?
Non sorprende perciò che un storico esperto in simili ricerche, Francesco Barbagallo, tracci per Laterza — col titolo
La questione italiana —
l’itinerario che ha attraversato il cosiddetto “divario ” Nord-Sud dall’Unità d’Italia ad oggi. Nell’alternarsi di ardui tecnicismi statistici con pagine sobriamente emotive, ne emerge un promemoria impressionante. Si vede il filo del “meridionalismo” stendersi lungo i decenni, sia nel campo delle riflessioni cui si dedicano storici insigni da Rosario Romeo a Giuseppe Galasso, sia in quello più direttamente economico, da Nitti a Guido Dorso, da Manlio Rossi-Doria ad Ugo La Malfa e Francesco Compagna, sia, infine, ai tecnici di “intervento”: e qui si tratta di una squadra nel cui vertice figura — per fare un solo nome — quel Pasquale Saraceno,
che l’autore inclina ad assumere come apostolo dell’industrializzazione del Mezzogiorno.
In estrema sintesi, il libro dimostra che l’azione delle classi dirigenti nei riguardi del Sud ha conosciuto rari momenti di auge e lunghi periodi di stasi. Durante il fascismo, al di là delle pubbliche proclamazioni — per Mussolini il divario fra Nord e Sud, e la relativa “questione” erano del tutto «inventati» — l’attenzione al Mezzogiorno culminò nelle opere di bonifica «lungo la costa campana, dal Volturno al Sele» oltre che nella «battaglia del grano». Iniziative che ebbero effetti non del tutto positivi o addirittura funesti. La bonifica diede origine,
nella sua area, a un fenomeno di urbanizzazione tale da «lasciare indietro le altre regioni» del Sud. Dal canto suo, l’impulso a una più alta produzione granaria» in terreni impervii e inadatti del Mezzogiorno» colpì a fondo il patrimonio zootecnico, in particolare l’allevamento di capre e pecore. «Ecatombe ovina»: ecco un’espressione del tempo che riassume l’accaduto.
Nell’immediato dopoguerra, a nessuno tornò in mente che il meridionalismo fosse una mera invenzione. Manlio Rossi Doria poté accennare a «quel gruppo», cui «si è dato il nome di “meridionalisti”». Gli attribuì il merito «di avere impostato sul piano nazionale, come problema nazionale, la questione meridionale; di aver dimostrato che, se essa non si risolve, tutta la vita della Nazione ne resta indebolita e minacciata
». A Guido Dorso il separatismo siciliano parve, quello sì, «l’ultima invenzione
del trasformismo meridionale».
Barbagallo s’intrattiene sull’azione della Svimez, sull’istituzione della cassa del Mezzogiorno, su tutte quelle iniziative, a volte molto complesse, che contribuirono a dare al Sud «un consistente rilievo nel governo del paese». Gli anni che vanno dal Trattato di Roma (1956) al termine dei Settanta vengono da lui assunti come molto positivi per le speranze della “bassa Italia”. È allora che sorgono a Napoli due riviste, una liberaldemocratica,
Nord e Sud
(un titolo nittiano, è il caso di ricordare) e l’altra comunista,
Cronache meridionali.
È in questo contesto che avviene, postilla Barbagallo,
«la scoperta sociologica del Mezzogiorno, sul piano italiano, ma anche sul
terreno internazionale».
Che cosa è rimasto di quel lontano ventennio? È la domanda che l’autore sembra porsi avvicinandosi alla conclusione. Nei capitoli finali la “questione italiana” si risolve in quella serie di notizie negative che tutti conoscono. Il neo-liberismo che congiura a privilegiare l’Italia più sviluppata a danno delle potenzialità di riscatto che pure esistono nell’Italia depressa. Fabbriche storiche — un solo esempio, l’Ilva di Bagnoli — che chiudono. La disoccupazione, specie giovanile, che raggiunge dati record. Le classi dirigenti che «non vogliono sentir parlare del crimine al Sud, e in fondo nemmeno del Sud», realtà introvabile, ormai, nelle loro agende. Mafia e politica che intrecciano i reciproci destini. Sullo scadere del 2009 — lo riferisce Barbagallo — l’allora governatore della Banca d’Italia, Mario Draghi, definì il nostro Mezzogiorno «il territorio arretrato più esteso e popoloso» della Ue. Un primato che, a meno di non essere un leghista, serve solo a deprimere.