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 2013  marzo 02 Sabato calendario

ZINGARETTI “GIOCANDO A CALCIO HO IMPARATO NON MOLLARE”

«Ovunque si trovi, in spiaggia quando si decidono le sorti di “scapoli e ammogliati”, in un parco dove un gruppo di ragazzini sta giocando, Luca Zingaretti prende a calci un pallone. La passione non s’insegna e non invecchia. L’attore di talento che per milioni d’italiani è il commissario Montalbano, il regista e interprete di uno spettacolo sul rapporto tra arte e potere che appassiona il pubblico,
La torre d’avorio
di Ronal Harwood (fino al 24 marzo al Teatro Eliseo) è un mediano mancato. Un vero mediano, come quello cantato da Ligabue (“con dei compiti precisi/a coprire certe zone/a giocare generosi”).
Zingaretti sorride: «È così: ero
un mediano dotato, perfetto, disciplinato, forte fisicamente. Facevo quello che mi diceva l’allenatore. Il primo, Remone, non ammetteva repliche: “Anche se questo deve andare al bagno non lo devi mai mollare, capito?” e io eseguivo. Il secondo allenatore, Formichetti, mi buttò nella mischia: “Luca, alza la testa e gioca”. Con lui ho iniziato veramente a fare il calciatore».
Mediano con la testa e col cuore. «Da ragazzino — racconta Zingaretti — non ho mai conosciuto la febbre del sabato sera perché con i compagni andavamo a letto presto, la domenica si giocava. Rispettavamo tutti le regole. Le nostre conversazioni riguardavano il grasso con cui lucidare gli scarpini. Ricordo un amico che si vantava perché il padre gli portava la sugna del macellaio, e diventavano morbidissimi». Tutti i bambini sognano di diventare calciatori, ma pochi riescono. «Sono finito a fare un mestiere diverso: recito. Ma è quasi uguale… Il teatro è comunque un gioco di squadra. Da una parte c’è l’allenatore, in scena c’è il regista; sono due che preparano gli altri e poi non vanno in campo, ma decidono il destino dei giocatori (e degli attori)». Però Zingaretti recita, quindi gioca, entra in scena. «È vero, ma è sempre un gioco di squadra, a me piace vederlo così. Uno pensa ai calciatori come a undici cretini che corrono dietro il pallone, ma è un mondo affascinante: lo spogliatoio, la voglia di farcela, le occasioni mancate. Chi l’ha vissuto lo sa». Il calcio come metafora di vita, simile al cinema, dove in tanti restano in panchina. Luca il mediano che sognava un futuro negli stadi — e giocava bene — un giorno ha dovuto scegliere. «Perché tutte e due le cose, giocare a calcio e recitare, non si potevano fare, perché gli allenamenti
sono una cosa seria» spiega l’attore. «Ho scelto l’Accademia d’arte drammatica. Ma quegli anni tra la scuola e le corse per arrivare puntuale in campo sono stati bellissimi. Se parliamo di gioia pura non c’è niente di eguagliabile. In campo stavo bene; come tuffarsi sott’acqua e emergere un’ora e mezza dopo. E prima di addormentarti negli occhi avevi le stesse immagini, rivivevi la partita. Mi divertivano anche gli allenamenti, adesso ho una mia squadretta».
Oggi che gira l’Italia con
La torre d’avoriospiega
che è più difficile «ma nelle città di mare cerco sempre di andare a mangiare in spiaggia: c’è sempre qualcuno che ha portato un pallone. Non resisto e mi avvicino: “Mi fate giocare?”. Puro divertimento. Per questo la degenerazione del calcio mi fa arrabbiare. Un calciatore fa il mestiere che vorrebbero fare milioni di ragazzini e lo insozza in quel modo? No, non si fa».
Oggi il tifoso Zingaretti («romanista da sempre, non si cambia, come non cambia la sofferenza,
ogni tanto mi piacerebbe essere del Barcellona o del Manchester») a cinquant’anni mantiene vivo il ragazzino che tirava calci e ha conquistato la felicità. Grazie alla moglie Luisa Ranieri e alla figlia Emma «che hanno cambiato il mio rapporto col mondo: con loro tutto ha assunto un significato diverso ».
Gli impegni di lavoro si accavallano: ha girato i nuovi episodi di Montalbano (in primavera su RaiUno), ha interpretato Adriano Olivetti «un esempio che fa sperare», ora c’è il teatro «con un lavoro importante, scritto dallo sceneggiatore del film di Polanski
Il pianista.
Il testo racconta la storia vera del grande direttore d’orchestra Wilhelm Furtwängler a Berlino nel 1946, la resa dei conti. Gli alleati hanno bisogno di vittime eccellenti. Furtwängler non era stato esplicitamente nazista, però durante la guerra era rimasto in patria sostenendo importanti incarichi pubblici: una posizione di forte ambiguità. Io interpreto il maggiore che lo mette sotto accusa, Massimo De Francovich è il direttore d’orchestra». Il pubblico resta affascinato dalla sfida verbale, due mondi che si confrontano: quello del militare e quello dell’artista: «La pièce è un thriller dove il pubblico cerca di capire da che parte sta la ragione. Come accade nei veri capolavori, ascolti chi parla e pensi che sicuramente abbia ragione. Poi senti la difesa e ti sembra che la ragione stia dall’altra parte». Il palcoscenico come un campo di battaglia, o un campo di calcio, dove marcare l’avversario, battuta dopo battuta. «Mi piace la reazione del pubblico, che partecipa e resta spiazzato dal finale». Il mediano Zingaretti «forte e disciplinato » confessa che questo è un momento particolare della sua vita: «Sono un’anima in pena, una persona tormentata, ma sto vivendo un momento meraviglioso. Sono tornato a teatro e sto scrivendo il mio nuovo film con Alfredo Arciero e Riccardo Russo. È una storia che nasce della cronaca, quella di una donna napoletana che, per varie vicende della vita, si trova da fare da baby sitter in una famiglia cinese. Il mondo si ribalta, l’immigrazione cambia il volto del nostro Paese. Mi sembra un modo interessante per raccontare l’amicizia tra due donne diversissime, la storia di bambini venuti da un mondo lontano che oggi sono i nuovi italiani».