Giulio Anselmi, la Repubblica 2/3/2013, 2 marzo 2013
IL PARADOSSO DI RATZINGER AMATO SOLO DOPO L’ADDIO
TIMIDO, schivo, prigioniero di un guscio settecentesco di paramenti sontuosi e di riti solenni, papa Ratzinger ha cominciato a essere amato nel momento in cui ha reso pubblico l’addio. Forse perché tutti, fedeli e cittadini del mondo, sono stati sorpresi dalla constatazione che uno dei contemporanei più potenti, a differenza dell’oscuro popolo della Curia e di molti cardinali, era estraneo alle tentazioni del potere. Simboleggiato dall’anello detto del pescatore che giovedì, con rito crudele, è finito in frantumi. Prima tutti affermavano, dicendo il vero, che era un grande teologo le cui parole sconfinavano nella preghiera; ma la teologia non scalda il cuore delle folle, soprattutto nell’interpretazione di un professore senza grande carisma e privo di naturale propensione al contatto con la gente. «Giovanni Paolo II era tutto da vedere», dice un cardinale vicino all’Opus Dei, «Benedetto andava ascoltato. E con attenzione». Narrano che a Colonia, una sera di mezz’agosto 2005, dopo aver spiegato la differenza della parola “adorazione” in greco e in latino e al termine della preghiera comune, se ne sia andato a dormire, lasciando migliaia di ragazzi imbronciati. «Brontolavano: non ci ha detto neanche buona notte », ricorda il rettore di una magnifica chiesa romana. Ma lui temeva il rischio di una Woodstok cattolica. E pochi giorni fa, quando già aveva comunicato il ritiro e una folla di romani gli si era fatta più vicina per i riti delle Ceneri, applaudendolo con particolare calore, ha sorriso, quasi sorpreso, e ha tagliato corto: «Beh, ora torniamo a pregare ».
Tra mille, era stata avanzata l’ipotesi che avrebbe disseminato la strada dell’addio di molte altre sorprese. Ma alla fine il Papa - ché alcune decisioni varate in fretta e furia allo Ior e all’Idi e certi regolamenti di conti in segreteria di Stato non possono essergli realmente attribuiti - si è limitato ad accomiatarsi dai fedeli con un «non mi ritiro a vita privata, non lascio la Croce» che, in bocca ad altri, potrebbe apparire sibillino. «Ma che rivela solo grande sollievo», dice un monaco che lo conosce e che l’anno scorso era stato ipotizzato come predicatore per gli esercizi spirituali in Vaticano.
Esauriti i rituali degli addii, dietro l’immagine straordinaria del primo Papa che vola via in elicottero, restano tutti gli interrogativi umani, ecclesiastici, teologici, legati al ruolo del successore di Pietro che ha deposto le chiavi del regno, anche se vengono incoraggiate vulgate semplificatorie: come se fosse uscito di scena un timido vecchietto il cui addio non va drammatizzato, dato che era già previsto dai canoni della Legge. La papo-latria, che aveva catalogato i predecessori di Ratzinger come “il papa prigioniero” (Pio
IX), “il papa universale” (Pio XII), “il papa buono” (Giovanni XXIII), “il papa forte” (Giovanni Paolo II), prova a seppellirlo come “il papa mite”.
Fu mite o debole? Di certo provò a essere giusto e si impegnò nel tentativo di purificare la Chiesa: come mostra il gran numero di arcivescovi e vescovi – circa ottanta- cacciati per vari scandali durante il suo pontificato, dopo un lungo esame, compiuto dallo stesso Benedetto, delle loro Ponenze (i dossier vescovili). Tanto rigore viene citato da cardinali e uomini di curia come prova indiretta dell’assenza di addebiti specifici a carico di cardinali, per lo meno elettori, nel dossier Vatileaks: «Non avrebbe voluto esporre il successore a un tale rischio».
Di certo fu generoso con i collaboratori. Difese sempre il segretario di Stato Bertone, a cui era grato della sua fedeltà, malgrado molti cardinali lo esortassero a liberarsene per i suoi errori: «I Ratzinger sono leali», fu l’epitaffio del cardinale Joachim Meisner sulla vicenda. E salvò, fino a promuoverlo arcivescovo, il segretatario Georg Gänswein (che per ora lo segue), seriamente indiziato di essersi fatto rubare dal Corvo le fotocopie di atti del Papa che aveva conservato per sé.
Ma, a differenza di Wojtyla, Benedetto non è stato in grado di preparare, almeno un poco, la successione. «Di italiani non se ne parla», assicura un cardinale italiano, «tutto quello che è successo ci ha screditati in blocco». Per il porporato, ben deciso, «se me lo chiederanno», a contendere al collega Piacenza la Segreteria di Stato, i papabili possibili sono quattro, asiatici e sudamericani: l’arcivescovo di San Paolo Odilo Pedro Scherer in testa, Luis Antonio Tagle, arcivescovo di Manila, per ultimo. Nell’ipotesi, considerata remota, di un europeo , avrebbe chance Jean Pierre Ricard, metropolita di Bordeaux. Ma tutto è in alto mare. A tal punto che ha cominciato a circolare, tra monsignori e sostituti, il nome di un membro della “covata” genovese, al pari del vescovo Guido Marini, maestro delle celebrazioni liturgiche, quello che pronuncerà l’Extra omnes alla Sistina, e Ettore Balestrero, da poco nominato nunzio in Colombia. Si tratta di Francesco Moraglia, patriarca di Venezia. Ma l’ipotesi, malgrado le qualità del prelato di cui molti (cosa rara, di questi tempi, nella Città leonina) parlano bene, sembra un sintomo della confusione. «È vero che il patriarca porta per tradizione la veste rossa, ed è sicuro che nel prossimo concistoro a Francesco gli daranno la berretta », dice un suo compagno di seminario. «Ma ora dovrà aspettare. Neanche con Montini riuscirono a eleggere un papa fuori dal Sacro Collegio. E poi, francamente, di rivoluzione basta, e avanza, quella di Ratzinger».