Vanity Fair, 25 febbraio 2013
Il risultato delle elezioni politiche
Scriviamo alle nove di sera di lunedì 25 febbraio, lo spoglio del Senato è appena terminato, quello della Camera è arrivato a metà, ma non è ancora del tutto credibile perché i primi dati provengono dalle regioni rosse e forse sovrastimano il risultato del Pd. I numeri dicono questo: a Palazzo Madama il Partito democratico ha avuto percentualmente più voti, ma ottiene un numero inferiore di seggi, avendo dovuto lasciare a Berlusconi la Lombardia, il Veneto, la Sicilia, la Campania, la Puglia, cioè le regioni più grandi. I conteggi sono in corso mentre scriviamo, ma i rapporti di forza all’interno di Palazzo Madama dovrebbero essere di (circa) 123 seggi per il Pdl contro i (circa) 104 seggi per il Pd. La maggioranza minima al Senato si raggiunge con almeno 158-160 seggi.
I primi dati della Camera, proiettati in modo da correggere l’ipotetica sovrastima iniziale, vedono in lieve vantaggio Bersani e la sua coalizione con un 29,2% contro un 28,3 del centrodestra. Questo dato potrebbe cambiare nel corso della notte, ma il giornale ha tempi di chiusura tali che non ci permettono di attendere lo spoglio dell’ultima scheda.
Grillo Prima di accennare alle possibili alchimie che dovranno permettere l’elezione dei presidenti dei due rami del Parlamento, poi la formazione di un governo, infine la scelta di un presidente della Repubblica, bisogna dichiarare subito che c’è una nuova forza con cui i vecchi partiti dovranno fare i conti, il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo. Se si guardano i risultati dei singoli partiti, prescindendo un momento dalle coalizioni, si scopre che i voti del Senato vedono il Pd primo, col 27,7% dei voti, e il Movimento 5 stelle secondo, con il 23,8. Il Popolo della Libertà, in questo ramo del Parlamento, è appena terzo col 22,1. In termini di seggi la forza di Grillo si traduce, per via delle deformazioni che la legge elettorale apporta ai consensi di ciascuno attraverso premi di maggioranza, sbarramenti e favori alle coalizioni, in circa 57 seggi al Senato, una numero davvero esiguo per un movimento di tanta forza. Alla Camera Grillo sarebbe addirittura primo col 25,6% dei voti contro il 25,3% di Bersani e il 21,4 di Berlusconi. Qualunque combinazione si escogiti per uscire dallo stallo in cui si trova Palazzo Madama, non si potrà non tener conto della natura e degli obiettivi di questa nuova forza politica.
Monti Quarta in tutte le classifiche, sia alla Camera che al Senato, è la coalizione di Mario Monti che andava sotto la denominazione di “Scelta civica”. Al Senato, questa formazione ha raccolto consensi per il 9,2 per cento, pari a 17 seggi. Alla Camera, la forza di Monti vale un 10,4% (nel momento in cui scriviamo) intraducibile in seggi al momento. Gli altri due membri della coalizione, cioè l’Udc di Casini e il Fli di Fini, raccolgono un risultato misero: Casini porta a casa un 1,8% che gli assegnerà un seggio a Montecitorio solo per via della regola che salva il miglior perdente (per avere il diritto di entrare bisogna superare lo sbarramento del 2%). Fini, allo 0,4, non tornerà alla Camera, che ha presieduto tra mille contrasti per cinque anni, ed esce probabilmente del tutto dal teatro politico che conta.
Ingroia, Giannino Ingroia ha preso l’1,8 per cento al Senato e alla Camera lo si accredita di un 2,2. Si potrebbe dire: tanto rumore per nulla. Il pm che ha creduto di farsi propaganda con l’inchiesta sulla trattativa stato-mafia tornerà in Guatemala o alla Procura di Palermo, anche se insiste nel dire che continuerà a coltivare il suo movimento radicale “Rivoluzione civile”. L’altra formazione che aveva velleità di esistenza, il “Fare” di Oscar Giannino, ha preso lo 0,9 al Senato e alla Camera oscilla intorno all’1,1. Non c’è bisogno di far commenti.
Berlusconi È indispensabile richiamare l’attenzione sul caso Berlusconi: dato per morto politicamente, al punto tale che lui stesso, in novembre, aveva annunciato il ritiro dalla politica, il Cav è risorto da par suo, certo non raggiungendo i risultati di un tempo, ma affermando con forza che il centro-destra, fino a nuovo ordine, si identifica con lui e con lui dovranno fare i conti i potenti d’Italia e d’Europa. Le prime dichiarazioni degli esponenti di centro-destra sono state prudenti: si escludono nuove elezioni a breve, ci si affida al «percorso istituzionale» (così Cicchitto). Significa che gli avversari vengono chiamati a una dura trattativa su tutte le materie in campo, fino alla presidenza della Repubblica. L’idea, accarezzata da Bersani durante tutta la campagna elettorale, che un asse Pd-Monti avrebbe potuto determinare la politica del Paese, è definitivamente tramontata. Monti stesso non è più una carta spendibile per nessuna soluzione terza.
Bersani In tutti gli scenari in cui ci si immagina che il Pd possa fare maggioranza aggregandosi magari a Grillo o puntando a una Grande Coalizione col centro-destra, non si deve dimenticare che Bersani, anche se avrà il premio di maggioranza a Montecitorio, esce di fatto battuto. Non solo perché è in minoranza di seggi al Senato, ma perché il risultato ottenuto è troppo inferiore alle aspettative della vigilia. Come dimenticare la Laura Puppato, già candidata alla segreteria, che all’inizio di gennaio pretendeva lumi sulla spartizione degli incarichi di governo e la garanzia che al suo Veneto sarebbe toccato qualcosa? Tra le numerose crisi che questo voto può innescare, va considerata soprattutto quella dei democratici, dove è normale che a questo punto Matteo Renzi punti alla segreteria. Il primo a dichiarare che ci vogliono nuove elezioni è stato Stefano Fassina, l’economista del Pd seguace della Camusso, a cui non piace (non può piacere) nessuna delle alleanze possibili a questo punto. Oltre tutto il contributo di Sinistra e Libertà (Vendola) al risultato del Pd è si aggira intorno al 3%, o poco più. Non sufficiente, si direbbe, per alzare la voce.
Soluzioni I possibili sbocchi delle elezioni di febbraio sono un esercizio di alta enigmistica. Votare nuovamente con questa legge elettorale produrrebbe con tutta evidenza risultati non troppo dissimili dagli attuali. Cambiare la legge elettorale richiede un accordo tra i partiti, accordo che non s’è potuto trovare nei mesi scorsi e che non si vede come possa essere raggiunto nei mesi prossimi. Certo, tutto potrebbe essere deciso da Grillo, se Grillo fosse disposto a spostare la sua massa di manovra in una direzione o nell’altra. Ma, se stiamo a quello che s’è sentito in campagna elettorale o che abbiamo letto sul suo programma elettorale o nel pamphlet scritto con Casaleggio e Dario Fo, Grillo si accinge a giocare di rimessa, cioè a non garantire niente a nessuno e semplicemente a far approvare quello che gli va a genio e bocciare quello che non gli garba. I grillini potranno esimersi dalle cariche che spettano a forze politiche così imponenti? Presidenze o vicepresidenze delle assemblee e delle commissioni, la guida del Copasir (servizi segreti) o magari della Commissione parlamentare di vigilanza sulla Rai? Già un no a queste offerte farebbe impazzire il sistema. E accetteranno, per esempio, che in viale Mazzini comandino uomini scelti da Casini, che durante il governo Monti ha piazzato sua gente dappertutto, o che siano emanazione delle banche? Il Movimento 5 Stelle imporrà a qualunque governo di tagliare parlamentari, finanziamenti, province e altri giocattoli che sono serviti al sottogoverno dei partiti. Il vecchio sistema reggerà l’urto? Bersani, se rimarrà in sella, preferirà difendere i partiti contro l’eversore e allearsi per questo col centro-destra, o vorrà continuare la guerra senza quartiere, con l’inutile apporto dei magistrati, contro il Cav, un incubo a questo punto per lui e i suoi, un incubo che lui e i suoi non riescono a scacciare neanche con l’aiuto dell’Europa.