Federico Fubini, Corriere della Sera 02/03/2013, 2 marzo 2013
PENDOLARI LOW COST, SUSSIDI SOLO A CHI LAVORA
Quando nel 2009 la GlaxoSmithKline annunciò che avrebbe chiuso il suo impianto a Sligo, in Irlanda nord-occidentale, i dipendenti rimasero per un po’ sotto choc. Erano increduli, mai avrebbero pensato che sarebbe toccato a loro. Fu un trauma simile a migliaia di altri che in questi anni si sono propagati fra i Paesi colpiti dalla crisi del debito.
Quello stabilimento farmaceutico esisteva dal 1975, quando fu aperto dal gruppo tedesco Stiefel, e niente di tutto quello che stava accadendo in Irlanda sembrava doverlo interessare così da vicino. I 180 operai e tecnici vedevano bene che l’economia nazionale si stava piegando sotto il peso della bolla immobiliare e bancaria, ma Sligo credeva di vivere in un altro pianeta. In fabbrica dominava l’idea che quel posto fosse troppo importante per essere toccato: un impianto tradizionale, una struttura paternalistica e con poche opportunità, ma se non altro un posto per la vita. Fino all’annuncio dei nuovi azionisti di Glaxo.
Passano tre anni e ora la casa madre fa sapere che ha cambiato idea: Sligo non chiude, ma verrà riconvertita alla cosmetica. Nei tre anni fra i due annunci — dalla chiusura al rilancio — i dipendenti hanno affrontato una trasformazione emblematica di una certa Europa in recessione almeno quanto lo fu l’incapacità iniziale di capire cosa stava accadendo. La crisi poteva investire professionisti specializzati, non solo i manovali della porta accanto. A Sligo, i manager e gli addetti hanno deciso di non cedere facilmente. Si sono impegnati a incontrarsi ogni mese per fare il punto e discutere gli intoppi di produzione, per migliorare insieme. In poco più di due anni la quota di lotti difettosi è scesa dal 5% all’1,5%, l’assenteismo dal 4% al 2%, i casi di perdita di tempo in fabbrica dal 6 all’1%. La produttività è salita del 40%, ha riconosciuto la Glaxo. Prima ancora che l’Irlanda uscisse dalla recessione, tutti i posti erano salvi.
Quella di Sligo è una storia a lieto fine di un’Europa in viaggio dal mondo di prima, quando il debito copriva ogni inefficienza, a un sistema per molti versi più duro: capace però di creare lavoro, competenze, tenuta delle imprese su basi più sane. Non tutte le vicende hanno lo stesso lieto fine, ma alcune contengono semi esportabili anche in altri Paesi colpiti dal contagio. Sempre in Irlanda, nel settore dell’ottica alcune imprese hanno ridotto l’orario e la paga fino al 40%. Per anni si è lavorato solo tre giorni la settimana, ma tutti. Nessun posto è andato perso e il ritorno della domanda dall’estero ha riportato gli addetti verso salario completo e a tempo pieno. Anche il governo di Dublino ha offerto un’idea che a molti in Italia parrebbe lunare: i disoccupati vengono mandati in fabbrica o negli uffici a fare «tirocinio» — a lavorare — finanziati dall’assegno di mobilità del governo più un indennizzo di 50 euro al mese. Chi ha perso il lavoro non perde contatto con il mondo produttivo, mentre le imprese integrano manodopera gratis e aumentano così la competitività.
Non che in Italia non esista qualcosa di simile, ma si consuma nell’illegalità e nella corruzione. Nel Mezzogiorno non è raro che certi sindacalisti chiedano all’imprenditore il 10-15% del costo dell’ultima busta paga di un cassaintegrato, che resta in azienda a produrre, in cambio della garanzia che non ci sarà ispezione dell’ufficio del lavoro.
Più lineari i meccanismi di riduzione dei costi di produzione che stanno emergendo in Spagna. Il gruppo iberico di consulenza e servizi Indra Engineering nel 2012 ha aumentato il suo fatturato del 9% a 2,9 miliardi anche grazie ai suoi consigli sulla localizzazione delle aziende spagnole in crisi. A molte suggerisce di spostare l’ubicazione degli impianti dalla regione di Madrid, dove i costi sono più alti, verso le aree più arretrate in Andalusia e Extremadura. Anche qui nessuno viene licenziato, almeno formalmente. Ai dipendenti viene offerto un nuovo contratto a un costo lordo del 10-20% più basso, in modo da riflettere il minore costo della vita nella nuova area di produzione dell’impresa: un processo che gli addetti ai lavori chiamano «near shoring», delocalizzazione non all’estero ma in aree dai costi più bassi di uno stesso Paese.
Neanche in Spagna questi aggiustamenti sono privi di una buona dose di brutalità. Dall’inizio dell’euro la Spagna ha perso circa il 20% di competitività sulla media dell’area euro, anche a causa della bolla immobiliare che ha eliminato ogni incentivo all’investimento tecnologico e all’istruzione di alto livello: l’impatto dell’edilizia è stato così pervasivo che chi studiava meno, finiva per guadagnare di più dei laureati e degli specializzati. Questo ha fatto crollare la produttività ma ora anche gli iberici, pur di lavorare, corrono ai ripari. Fra gli esempi più drastici c’è la navetta aerea (ovviamente low cost) che i tecnici della Santander Banesto affrontano ogni settimana per operare in Germania in una controllata tedesca del gruppo bancario spagnolo.
In Portogallo c’è chi affronta la crisi con ancora più coraggio. Decine di migliaia di migranti vanno a lavorare nell’indotto dell’industria petrolifera in Angola, un’ex colonia portoghese fino a due anni fa in pieno boom, mentre centinaia di professionisti passano la settimana a Luanda e il weekend a Lisbona da pendolari della crisi. In questi anni le rimesse degli emigranti dall’Angola al Portogallo sono esplose da 5 a 147 milioni di euro, superando quelle dalla Germania, dalla Svizzera e dalla Gran Bretagna. E in Italia? Dall’avvio dell’euro nel ’99 la produttività è calata del 3,9% — la performance peggiore d’Europa — mentre saliva dell’8,3% dell’area euro. E forse anche sindacati e imprese in questo Paese, prima o poi, supereranno la stessa incredulità che paralizzò anni fa una fabbrica a Sligo di fronte alla crisi. Lì oggi tutti lavorano: hanno capito, forse, che non è mai così buio come prima dell’alba.
Federico Fubini