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 2013  marzo 02 Sabato calendario

«NIENTE GOVERNISSIMO E BLANDIZIE AI CINQUESTELLE»

«Vedo che il mio nome viene chiamato in causa in questi giorni, attribuendomi di volta in volta posizioni diverse e comunque non corrispondenti al mio pensiero. Né mi fa piacere vedere il mio nome associato a quello di altri. Ho sempre coltivato le mie opinioni e, soprattutto in questi anni, l’ho fatto molto discretamente. Da D’Alema per esempio mi divide com’è noto una profonda differenza di opinioni politiche e culturali che c’era, c’è e ci sarà. Questo non mette in discussione il rispetto reciproco; ma è un dato di fatto».
Qual è allora il suo pensiero, Veltroni, a proposito delle elezioni?
«Questo voto precipita l’Italia in una situazione che negli ultimi cinquant’anni c’è stata solo due volte: il 16 marzo del ’78, e nell’estate-autunno del ’92».
Il rapimento Moro e la crisi valutaria.
«Come allora, l’Italia vive un vero e profondo rischio; ma non sento nella valutazione di quel che sta accadendo questa drammaticità che dovrebbe portare tutti a muoversi di conseguenza. Vorrei sottolineare alcuni dati. Primo: è stata la prima volta che gli italiani hanno votato in recessione. E la recessione non è una congiuntura economica negativa, è sistemica, travolge imprese e lavoro, radicalizza le posizioni. Secondo: l’affluenza è stata la più bassa dal ’46 a oggi, nonostante ci fosse un voto su cui la protesta poteva scaricarsi. Terzo: il primo partito d’Italia è il Movimento 5 Stelle, con Berlusconi che è arrivato a un soffio dal primato. Quarto: le grandi regioni del Nord sono tutte in mano alla Lega, che può da lì coltivare propositi di esasperazione della divisione Nord-Sud. Quinto: il paese è stremato dalla crisi. Ultimo, ma non da ultimo: non c’è governabilità. Questo voto è stato la tempesta perfetta. Ci consegna un Paese in cui non c’è maggioranza possibile, e per chi ama la storia la crisi di Weimar nacque esattamente così».
Vede addirittura pericoli per la democrazia?
«Vedo ricorsi storici molto pericolosi. In 14 anni ci furono 9 elezioni, nel cuore di una recessione che scosse la Germania. Se non si capisce che questo è il tempo più difficile della storia italiana — nel ’78 e nel ’92 la recessione non c’era —, non si mette a fuoco il problema».
Come se ne esce?
«Vado per esclusione. Escludo un governo Pd-Pdl. Non solo perché porterebbe le 5 Stelle ad almeno 7, ma perché non vedo come ci si possa accordare con un uomo che ha infranto il silenzio elettorale per dire che la magistratura è peggio della mafia, dopo aver promesso il rimborso dell’Imu e il condono tombale».
L’Europa però ha già avuto grandi coalizioni.
«Sì, ma in Germania c’erano Schroeder e la Merkel, e in Belgio il mio amico Verhofstadt; non c’era Berlusconi, che si conferma la potente ma terribile anomalia della politica italiana».
E un accordo tra il Pd e il Movimento 5 Stelle?
«Non mi pare un’ipotesi facilmente praticabile. Alla proposta Grillo non ha risposto: "La esamineremo". Ha risposto al segretario Pd definendolo stalker e morto che parla. È giusto proporlo; ma vedo difficile che Grillo sostenga o anche solo faccia nascere un governo del Pd. E credo sarebbe sbagliato blandire parlamentari o offrire presidenze, si dimostrerebbe di non aver capito la natura di quel movimento. Se anche poi i senatori di Grillo uscissero dall’aula, lo farebbero pure quelli del Pdl».
Resta l’ipotesi di un accordo tra i tre poli.
«Tenderei a escluderlo. Forse l’unica strada è un governo nato dall’iniziativa del presidente della Repubblica, che senza una maggioranza precostituita vada in Parlamento a cercare il consenso su un programma di riforme. Ci sono le condizioni per un governo che non viva alla giornata, frutto di alchimie tra posizioni abbastanza incompatibili tra loro? Quale garanzia di stabilità darebbe all’Europa e ai mercati, e quali riforme potrebbe fare? Rischia di restare sul campo solo il ritorno al voto. Ma farlo con questa legge che reitererebbe l’ingovernabilità, significa Weimar. Ci vuole un atto del nuovo Parlamento. Una prova di responsabilità: una nuova legge elettorale e una riduzione del peso della politica».
Chi potrebbe guidare il "governo del presidente"?
«Non spetta a me dirlo. E’ giusto che Bersani faccia il passo che ha proposto. Ed è giusto che sia il capo dello Stato a indicare la soluzione più giusta».
E se restasse Monti?
«In assenza di altre soluzioni, è un fatto che rimanga in carica il governo esistente. Non c’è la sede vacante come in Vaticano. Monti ha sbagliato la campagna elettorale; ma senza di lui Berlusconi avrebbe la maggioranza in Parlamento».
Chi sarà il prossimo capo dello Stato?
«Spero sia in continuità con Scalfaro, Ciampi e Napolitano, sulla linea della salvaguardia della democrazia italiana. Se poi fosse possibile convincere a un sacrificio Napolitano, che comprensibilmente ribadisce di non essere candidato, sarebbe un elemento importantissimo di tenuta democratica in un momento così difficile».
Se non riuscirà a formare un governo, Bersani dovrà lasciare la guida del Pd?
«Non sono tra quelli che gettano la croce addosso a chi conosce un insuccesso elettorale. L’ho subìto; ma non lo farò. Però non ci si può nascondere la portata drammatica di questo voto: abbiamo perso quasi 4 milioni di consensi, il 30% del nostro elettorato, siamo il partito meno votato dai giovani. Bisogna dirsi la verità. Il problema vero è portare il Paese fuori da questa situazione. Spero che il Pd non si chiuda, ma scelga di ritrovare la sua vocazione originaria».
Candiderete Renzi?
«Matteo è una risorsa importante ma la sinistra discute di nomi da anni. E’ un’ossessione. Così ha finito con il sottovalutare il significato dell’ispirazione politica e la coscienza del dolore che attraversa il Paese tutto, impresa e lavoro, fratelli inseparabili. Il Pd deve rilanciare quello di cui l’Italia ha bisogno: una stagione di riforme radicali la può aprire solo un partito con le caratteristiche che il Pd aveva alla sua nascita. Vorrei si tornasse all’idea di fondo, quella del Lingotto, che fu premiata da 12 milioni di elettori. Un partito democratico non è semplicemente progressista, è qualcosa di molto più aperto e radicale: è un partito che assume su di sé elementi di rottura con il passato, che si batte per una politica lieve. Sono andato a rivedermi il decalogo che presentai nel 2008: abolizione delle Province, taglio del numero dei parlamentari e dei loro stipendi, riduzione dell’invadenza della politica...».
Nel 2008 però avete perso.
«Quelle elezioni venivano dopo la difficile esperienza di un governo che andava dall’Udeur a Rifondazione, sottoposto al bombardamento degli illegali e confessati ricatti berlusconiani, come si vede in questi giorni. Alle provinciali del 2007 il centrosinistra prese il 22%. In pochi mesi recuperammo oltre 11 punti. Se oggi avessimo quei voti, saremmo al governo da soli. E alle primarie di partito parteciparono 400 mila persone in più che alle primarie di coalizione del 2012: un dato che è stato sottovalutato».
Ma nel frattempo è esploso Grillo.
«Grillo esordisce proprio nel 2007, con il Vaffa-Day. Ma allora la novità rappresentata dal Pd e la sua radicalità non dico che riassorbì ma interloquì con quella gente. Dobbiamo recuperare l’idea di una forza che non è la prosecuzione dell’antica storia ma è anche culturalmente nuova, con un’identità non ritagliata sulla negazione delle identità del passato ma incentrata sull’innovazione».
Quali errori ha commesso Bersani?
«Abbiamo pagato l’antica paura "pas d’ennemis a gauche", l’ansia di non scoprirsi a sinistra; e si è visto quanto rappresenti la sinistra estrema. Su Grillo sono stati fatti clamorosi errori di valutazione, si è parlato di diciannovismo. Grillo ha agitato temi che non appartengono alla sinistra: no allo ius soli, sciogliere i sindacati, uscire dall’Europa. Ma per lui hanno votato molti che votavano Pd».
Come potreste riconquistarli?
«Queste persone bisogna ascoltarle e con loro dialogare, contrastando le posizioni sbagliate ma non rifiutandosi di capire il segnale che hanno mandato. La cosa peggiore sarebbe arroccarsi, chiudere, negare il senso di queste elezioni che chiedono più innovazione, più cambiamento, più apertura. Per molto tempo abbiamo avuto l’angoscia dire qualcosa di sinistra. La sinistra del 2000 non dice sempre no, è al mondo per cambiare non per conservare. Si riapra invece una speranza e un sogno. Il centrosinistra non può essere percepito solo come le persone ragionevoli, ma come le persone che sanno accendere la speranza e rispondere al disagio. Dalla recessione non si esce come si è entrati: o si generano grandi idee di cambiamento, come fu il New Deal, o si rischia di venirne travolti. Il centrosinistra deve rialzare lo sguardo e seguire il suggerimento di uno scrittore che amo molto, Saint-Exupéry: "Se vuoi costruire una nave, non radunare uomini per tagliare legna, dividere i compiti, impartire ordini; ma insegna loro la nostalgia per il mare vasto e infinito"».
Aldo Cazzullo