Marino Niola, la Repubblica 3/3/2013, 3 marzo 2013
Santi in estasi, madonne in campana, statuine di anime purganti tra le fiamme, idoli della santería cubana e feticci della macumba
Santi in estasi, madonne in campana, statuine di anime purganti tra le fiamme, idoli della santería cubana e feticci della macumba. Siamo circondati dai simboli. La casa napoletana di Peppe Barra è a metà tra un sacrario pop e una wunderkammer barocca. Piena d’ombra e di sogno. «Mi sentivo un privilegiato perché avevo una nonna con gli occhi blu». Sembra incredibile guardando gli occhi saraceni di Peppe e ricordando quelli da gitana pieni di duende di Concetta, madre amatissima e compagna di scena. Il grande attore e cantante parla con tenerezza di sua nonna come di una seconda mamma. «Mi ha cresciuto nonna Michela perché i miei genitori recitavano e non avevano tempo di seguirmi. I primi anni vivevamo a Roma, in una pensione in piazza dei Crociferi. Ricordo chiaramente il riverbero azzurrino dell’acqua della Fontana di Trevi che si rifletteva sul soffitto della stanza e sui papaveri rossi della tappezzeria». La memoria di Peppe è teatralissima, fatta di scene, di personaggi, di incontri, di intermezzi, di flashback. Con un’infallibile regia a incastro che ricompone insieme i ricordi in una drammaturgia fantastica. Alla Marquéz. «Il mio debutto l’ho fatto nel 1947, avevo tre anni. Papà e mamma facevano uno spettacolo per la Croce Rossa americana. Il pubblico era fatto soprattutto di soldati feriti, italiani e americani. Mi ricordo la scena come se fosse ieri. Papà Giulio aveva appena finito di fare la sua strepitosa imitazione di Charlot. E l’orchestra di Armando Trovajoli attaccò un boogie woogie». La colonna sonora della Liberazione, dell’Italia in bianco e nero che usciva dalla guerra. «Dopo qualche nota mi precipitai in scena. Avevo il vestitino tirolese che mi aveva fatto mamma Concetta, mi vestiva sempre da pupazzetto perché era estrosa e io, che ero piccolo piccolo, sembravo proprio un giocattolino. Guarda com’ero». Mi mostra una sua foto poggiata sul tavolo tra una statuina di Iside col sistro e un’Addolorata andalusa con sette spade nel cuore. Carino. Poi esagero, bellissimo. «No guarda, bellissimo proprio no. Sai a quell’età, quando chiedevo a mia mamma se ero bello lei mi diceva sempre “No a mammà, tuo fratello Gabriele è bello. Invece tu non sei bello ma sei simpatico”. Per me era una doccia fredda». Un premio di consolazione che, per fortuna, non ha minimamente scalfito il narcisismo di Barra, la sua fame di teatro. «Sai come andò a finire? Che mi misi a ballare, con il ditino alzato. E si sa come sono gli americani, vanno pazzi per i bambini. Quando videro questa minuscola marionetta roteante impazzirono. E cominciarono a lanciare sul palco stecche di sigarette, caramelle, cioccolata. Finì che tornai dietro le quinte con tutto quel ben di Dio in braccio a una crocerossina americana, me la ricordo ancora, una ragazzona bionda con le guance rosse come mele. Un trionfo, ma le buscai da papà». È dopo quell’esordio intempestivo che comincia la vera infanzia, con il trasferimento a Procida. Che all’inizio degli anni Cinquanta era davvero l’isola di Arturo. Miracolosamente risparmiata dai bombardamenti. Una vera oasi a poche miglia dalla Napoli oscurissima di Anna Maria Ortese e Curzio Malaparte. «Procida era davvero incantata. Bianca, bella, pulita. Piena di odori. Di tradizioni e di racconti che hanno formato il mio immaginario. Quando ci siamo trasferiti a Napoli parlavo procidano e nessuno mi capiva». E qui Peppe comincia a diventare Barra. Con la scuola di recitazione di Zietta Liù, al secolo Lea Maggiulli Bartorelli, scrittrice e antesignana del teatro per ragazzi in Italia. Fra i suoi allievi Roberto De Simone e Fausta Vetere. «Io ero povero, in un contesto molto ricco, perché gli allievi della scuola erano tutti rampolli dell’alta borghesia e della nobiltà napoletana dell’epoca. Zietta invece mi scelse perché avevo talento, ero forse uno dei più bravi, per cui facevo da jolly e dovevo aspettare che una bambina o un bambino si ammalassero per sostituirli. Allora le sarte dovevano adattare su di me gli abiti che avevano fatto per questi bambini e ogni abito costava dalle ottanta alle centomila lire». L’equivalente di due stipendi di quegli anni. Uno sfarzo da far girare la testa a un bambino. «Infatti quando toccava a me era bellissimo entrare in scena sfolgorante di paillettes e di strass. Peccato che non potessi cantare, dicevano che non ero intonato». A scoprire il talento musicale di Peppe è stato Roberto De Simone qualche anno dopo, quando cercava voci per la Nuova Compagnia di Canto Popolare. Era il ’66 e stava per iniziare il revival folk di cui il gruppo napoletano è stato l’emblema. «Abbiamo avuto la fortuna di avere uno sponsor come il grande Eduardo che venne a sentirci al conservatorio di San Pietro a Majella e la prima cosa che disse fu “ragazzi, se volete realizzare qualcosa dovete fuggire da Napoli” e ci scrisse una bella lettera di presentazione a Romolo Valli, allora direttore artistico del Festival dei due mondi di Spoleto». E proprio a Spoleto debutta nel 1976 La gatta Cenerentola, uno degli spettacoli culto del teatro italiano del Novecento. «Fellini si innamorò della Gatta. A Roma venne a vederci un giorno sì e uno no per un mese intero. Eravamo al teatro Tenda, dove non si potevano montare le scene e lui disse a De Simone “Roberto, io torno a vedere La Gatta perché ogni giorno mi immagino una scenografia diversa”. E il dopo teatro, quando andavamo a cena con lui e Giulietta Masina, era un altro spettacolo». È stato lui a farti conoscere Nino Rota? «No, è stato il suo allievo Antonio Florio — direttore d’orchestra con il quale il 7 marzo all’auditorium di Castel Sant’Elmo, a Napoli, Barra debutta con Ppè mmùseca, uno spettacolo di musiche barocche — spesso arrivava verso mezzanotte nella casa romana di Tony, con un cartoccio di fave e una bottiglia di vino. Gli piaceva ascoltarmi mentre cantavo arie barocche, con Florio che mi accompagnava al piano. Nino mi ha insegnato molto, soprattutto l’arte di conoscere e coltivare il proprio talento. È proprio vero che solo i maestri ti rivelano a te stesso». Insomma gli incontri che si fanno nella vita sono sempre decisivi. Di questo Peppe il fatalista è arciconvinto. Ci vuole fortuna. «E io ne ho avuta a incontrare persone che mi hanno segnato. Come Fabrizio De André. Con lui fu un colpo di fulmine. Ci intendevamo quasi naturalmente. Come capita spesso fra genovesi e napoletani. Siamo affratellati dall’acqua salata. Quando mi sentì cantare Bocca di rosa mi disse che sembrava fatta per me. In un certo senso me la regalò. E lo stesso è accaduto con quel genio poetico di Lele Luzzati. Sono sue le scenografie della mia Cantata dei pastori. E adesso sono esposte a Genova nel museo Luzzati di Porta Siberia». E tra i grandi incontri c’è anche quello con John Turturro che lo ha voluto in Passione, il suo song movie sulla canzone napoletana. In un’intervista ha dichiarato che sei uno dei più grandi attori al mondo. «Mi fai arrossire», sussurra con un trillo da Colombina. «Beh a dire il vero John mi propose di fare con lui Italian Folk Tales, lo spettacolo ispirato alle Fiabe italiane di Calvino, ma io stavo lavorando alla Cantata». Del resto l’America è sempre presente in un modo o nell’altro nella vita di Barra. «C’è una specie di filo diretto tra l’America e Procida. Mia zia Nella, una donna bellissima, andò a vivere in Florida e diventò la compagna di Harry Belafonte. L’altra sorella di Concetta, zia Maria, stava in Nebraska a Columbus. La sua era una di quelle classiche case americane con la veranda, la sedia a dondolo e la prateria infinita davanti. Di sera quel grande buio era interrotto da qualche luce solitaria. E lei immaginava di essere a Procida e di vedere le lampare». Assolutamente commovente, non ci resta che piangere. Fra l’altro le tre sorelle negli Quaranta avevano costituito un trio canoro che si chiamava il Trio Vittoria, cantavano per le truppe al fronte. «Ti voglio raccontare un episodio ancora più emozionante. Nell’87 decisi di fare rincontrare le tre sorelle che non si vedevano da trent’anni. Con Concetta andammo prima a Boston a prendere mia cugina che studiava al college, poi a Columbus a recuperare zia Maria e come i quattro dell’Ave Maria arrivammo a Miami a casa di zia Nella. Non ti dico: abbracci, baci e lacrime. Una cosa travolgente. Poi si accomodarono una dopo l’altra sul sofà e successe una cosa che mi lasciò letteralmente basito. Le tre sorelle si guardarono senza dire una parola e improvvisamente, a cappella, intonarono una canzone degli anni Trenta. Ba, ba, baciami piccina sulla bo, bo, bocca piccolina… Credevo di svenire».