Richard Newbury, La Stampa 2/3/2013, 2 marzo 2013
IL "FURORE" NASCOSTO RISCOPERTO DA DEPP
Il 14 aprile 1935, Domenica delle palme, l’apocalisse colpì Pamla, Texas. La siccità degli Anni ‘30 scatenò una grande tempesta di polvere che dalle Black Hills del Dakota spazzò via lo strato superiore del terreno fino alle Grandi pianure dell’Oklahoma, del Kansas, del Nebraska, dell’Arkansas, del Colorado, del New Mexico e del Texas, oscurando il sole e il cielo, come se, nelle parole di Woody Guthrie che ne fu testimone oculare, «il Mar Rosso si stesse richiudendo sui figli di Israele». Ne furono rovinati i motori delle auto e dei trattori, così come i polmoni umani. Il bestiame morì e le colture seccarono, persino gli avvoltoi dovettero soccombere. Erano i tempi della Grande Depressione e le banche non investirono nel recupero, ma riacquistarono per sostituire i piccoli agricoltori con l’industria agraria su larga scala.
John Steinbeck ha descritto il triste esodo degli sfollati attraverso il deserto e le montagne fino ai campi di raccolta della frutta in California. Ma in Furore Steinbeck racconta questo percorso di migrazione dall’esterno, Woody Guthrie, pittore d’insegne itinerante, agricoltore e cantante folk, ne ha scritto dall’interno, come uno che «parlava la lingua». Il famoso inno di battaglia dei diseredati composto da Woody, Questa terra è la mia terra, è il Cantico dei Cantici del «suo» popolo e fu scritto in segno di sfida al mieloso, autoreferenziale God bless America di Irving Berlin. Vivendo come un hobo, viaggiando sui vagoni dei treni merci, come un mezzadro che divide con la famiglia una baracca di legno traballante di sei metri quadri, gelida d’inverno e calda come un forno d’estate, Woody ha documentato la sua stessa esperienza nelle 3000 canzoni popolari che gli valsero il Grammy in vita mentre il suo centenario – morì nel 1967 a 55 anni - è stato celebrato da un cofanetto con cento cd.
Nel 2012, durante le loro ricerche all’archivio Woody Guthrie della Tulsa University per un articolo dedicato al centenario sul New York Times , Johnny Depp, la star del cinema radicale, e lo storico Douglas Brinkley si sono imbattuti in un romanzo inedito e dimenticato portato a termine nel 1947 quando Guthrie viveva vicino alle montagne Chios, in Texas. Sono rimasti molto colpiti dalla forza della sua capacità descrittiva e narrativa e hanno deciso che doveva essere pubblicato. Hanno mostrato il manoscritto a Bob Dylan, che da Woody è stato assai ispirato, e nel 1961 aveva conosciuto il suo eroe. E lui, sbalordito, si è detto «sorpreso dal suo genio».
Nato in Oklahoma nel 1912 e, come il padre, girovago in cerca di lavoro attorno a Pamla, Texas, la terra che fu per Woody davvero la «sua» terra erano le montagne Chios del Texas che separano che le pianure dell’Est da quelle dell’Ovest. Il trovatore dell’Oklahoma non fa prediche; piuttosto illustra, attraverso quattro personaggi che potrebbero essere usciti dalle sue ballate poetiche e che assurgono al ruolo di personaggi epici. Hamlin Tyke è un agricoltore che lavora sodo su 300 ettari, ossessionato dall’indipendenza e con un sano appetito sessuale, ha «più palle che cervello». Della sua stessa età, 33 anni e altrettanto laboriosa, ma più pratica, la moglie, Ella May, che ha sposato Tyke contro il volere del padre, ricco proprietario terriero. C’è anche un anonimo ispettore agricolo che li vuole convincere a macellare il bestiame per far salire i prezzi. Infine vi è la formosa Blanche, la levatrice con un’istruzione universitaria, che offre gratuitamente i suoi servizi ai poveri. Vorrebbe avere dei figli ma ora è troppo colta per gli uomini locali disponibili, che non hanno istruzione. Parlano tutti in un dialetto completamente autentico, meglio dei personaggi di Steinbeck.
Essendo autentico non ci sono assolutamente «parolacce», tale è il mondo perduto della mia infanzia. Tuttavia ciò che appare avanzato per l’epoca, esclusi scrittori come D.H. Lawrence e James Joyce, sono le due descrizioni visive, quasi veterinarie, che aprono e chiudono il romanzo e gli conferiscono una qualità lirica che appartiene al mito. La lunga e tenera descrizione del ruvido e agitato amplesso sul fieno della stalla, prima della mungitura delle mucche, unisce la coppia con la loro fattoria e la sua fertilità e concepisce il figlio che è la loro speranza, in un matrimonio che comprende anche la loro terra e gli animali. Le ultime 30 pagine sono un resoconto dettagliato, ma quasi onirico, della difficile nascita nella baracca di una sola stanza mentre infuria una bufera di neve, delle loro speranze per il futuro - un figlio forte e la loro Casa di terra. La lezione è che gli uomini e le donne che si affidano l’uno all’altro possono superare «le tempeste della vita». Ella May durante il parto ha «visioni» del suo marito sconfitto e logorato. «Lei lo vide come il primo giorno che l’aveva visto. Sì. Montava a pelo un pony su una strada sterrata, e agitò il cappello e gridò così forte che fece imbizzarrire il cavallo che tirava il suo calesse».
Queste due scene potevano essere troppo esplicite per essere pubblicate nel 1947, ma mi dicono quanto siamo progrediti nel corso della mia vita - se, come Woody Guthrie ci ricorderebbe, un grande se - non viviamo in un campo profughi al confine della Siria. I temi di questo romanzo, come quelli delle tremila canzoni di Woody Guthrie, sono universali.