Carlo Bertini, La Stampa 2/3/2013, 2 marzo 2013
NEI DEMOCRATICI E’ GIA’ PARTITA LA CORSA PER LE NUOVE PRIMARIE
Cosa succederà se si dovesse tornare a votare tra pochi mesi? È chiaro che dovremmo rifare le primarie per decidere il candidato». Messo di fronte all’eventualità di uno scenario nefasto di un ritorno alle urne in caso di impasse totale, uno dei leader dei «giovani turchi», fa capire con chiarezza quale potrebbe essere la posta in gioco nel Pd. «Certo, in quel caso è molto probabile che Renzi si candiderà per avere la premiership e noi a quel punto sosterremmo un altro candidato». Mentre Bersani si prepara a sfidare la fossa dei leoni della Direzione sull’opzione di un governo di minoranza, succede anche questo in un partito in preda alle convulsioni, in ore concitate dove tutti sono consapevoli che la linea di un esecutivo a guida Pd con i voti dei grillini potrebbe facilmente andare a sbattere contro un muro di no del leader dei 5 Stelle.
Insomma già si pensa a nuove primarie tre mesi esatti dopo che lo scontro nei gazebo ha lasciato sul terreno lacrime e sangue. Perché non si deve dar nulla per scontato, neanche una candidatura “uber alles” di quel Renzi che molti ritengono essere l’unico in grado di giocarsela con Grillo. Il nucleo più di sinistra del partito - quello che per mesi ha criticato le politiche del governo Monti e l’insensibilità al tema degli esodati, quello che rivendica le analisi degli economisti d’oltreoceano che puntano l’indice contro gli effetti nefasti di politiche di rigore senza adeguati impulsi alla crescita e ai consumi - ecco quel blocco di vecchi e giovani dirigenti di matrice ex diessina, non accetterebbe passivamente di tornare alle urne portando l’acqua al mulino di Renzi.
E quindi se ogni tentativo di dare un governo al paese dovesse franare, in primavera potrebbero venir riconvocate le primarie anzitempo rispetto a quelle già previste dal congresso d’autunno per la segreteria del Pd. E a quel punto potrebbe profilarsi una sfida tra il sindaco di Firenze e chi invece, con il placet di Bersani (il nome più gettonato è quello di Fabrizio Barca) sia in grado di interpretare una linea più di sinistra nel solco della socialdemocrazia europea. Una linea che la nuova guardia, quella degli Andrea Orlando, Stefano Fassina, Matteo Orfini, viene sintetizzata in «abbiamo perso perché costretti a difendere le politiche del governo Monti, perché da 20 anni non riusciamo a intercettare i ceti popolari»; e condivisa da tutti quelli che non accetterebbero di sottostare al profilo più liberal incarnato da Renzi contro cui si sono battuti gli eserciti corpo a corpo per tre mesi prima delle elezioni. Ma tra i pretoriani del leader, soprattutto tra gli emiliani, c’è anche chi in caso di elezioni vuole, o prevede, o dà per scontato, che sia lo stesso Bersani a ripresentarsi candidato premier. Anche se lo stesso leader a quel punto, nel caso non riuscisse a fare l’ultimo giro di giostra guidando un governo «di combattimento e del cambiamento» con i voti dei grillini, potrebbe farsi da parteavendo più volte detto che «la giostra deve girare».
Ma in vista della Direzione di mercoledì, nei conversari del Pd, è stato colto con nettezza il segnale lanciato ieri dal Capo dello Stato come uno stop a chi pensasse a nuove elezioni. «L’idea che sta prevalendo nel Pd di dire a Napolitano “o si fa un governo Bersani o si va a elezioni a giugno” non solo solleva forti malumori nel partito ma trova una barriera al Quirinale», ragiona uno dei dirigenti di fede opposta a quella bersaniana. E anche se tutte le varie anime che fanno capo a Letta, Franceschini, Veltroni, D’Alema, Fioroni, concordano sul passaggio di sfidare Grillo in ogni modo fino a fargli dire sì o no in Parlamento, in caso di flop sul passaggio successivo le truppe potrebbero dividersi davanti ad un bivio: dover scegliere tra il votare la fiducia ad un «governo del presidente», non a guida Bersani, ma di un tecnico super-partes, insieme al Pdl e lista Monti, magari sotto la spinta dei mercati e dei partner europei; o votare no, nel rispetto del principio chiarito da Orfini «non daremo mai la fiducia insieme a Berlusconi a un governo che non sia votato anche da Grillo». O dalla Moretti, «come possiamo fare un governo con il nostro principale avversario politico?». E se questa spaccatura dovesse materializzarsi tra i banchi del Pd, al di là dell’esito di un voto delle Camere esiziale per i destini del paese, rischierebbe di far implodere il partito. «Certo quella non sarebbe una scelta tattica, ma strategica e indicativa di visioni troppo diverse», ammette uno degli uomini di Franceschini.
Anche se nessuno lo dice apertamente, potrebbe tornare lo spettro della scissione. E quindi tutto questo tramestio, da qui alla Direzione potrebbe indurre il segretario a portare una linea meno tranchant sul dopo, lasciando aperto uno spiraglio ad altre soluzioni...