Alessandro Penati, la Repubblica 2/3/2013, 2 marzo 2013
LO SPREAD NON FA PAURA RESTA IL REBUS-CRESCITA
E adesso, che succede? Non parlo di politica e di futuribili governi, ma della crisi finanziaria a cui potremmo andare incontro se l’ingovernabilità mettesse a rischio la fiducia nel nostro debito pubblico. È possibile? Certa? O improbabile?
Agli investitori nei nostri titoli di Stato interessa: 1) che ci sia un governo in grado e disposto ad aumentare le tasse a garanzia del debito pubblico; nel caso non abbia le capacità o la volontà di farlo, 2) che ci sia un altro organismo/meccanismo che garantisca al posto suo; e 3) che ci sia una possibilità di uscire dall’investimento, ovvero che, in ogni momento, ci sia un compratore. Il resto — quale governo, chi lo guida, chi compra se voglio vendere, qual è il meccanismo di garanzia — non conta: gli investitori sono pragmatici. La remuntada dello spread dai massimi della scorsa estate è
dovuta al verificarsi delle tre condizioni: il governo Monti aumenta le tasse avendo come priorità la garanzia del debito; con il varo dell’Esm e il rifinanziamento degli aiuti alla Grecia, la Germania manifesta esplicitamente la volontà di non volere una crisi dell’euro, almeno fino alle elezioni; e la Bce dichiara di essere compratore di ultima istanza del debito pubblico. Oggi, i margini di incertezza sono maggiori, ma le tre condizioni rimangono valide. Viene meno la garanzia del governo Monti; ma sarebbe sufficiente che il nuovo governo, in tema di tasse e spesa pubblica, non invertisse la rotta. Per gli investitori, l’ingovernabilità non è il problema: non è una situazione auspicabile, ma un’Italia senza governo per definizione mantiene lo status quo. Quindi non fa danni (in termini di garanzie sul debito). E se si tentasse di uscire dall’ingovernabilità con politiche che riducono le garanzie per i detentori di Btp, ci sarebbe sempre il “piano di aiuti internazionali” a condizionare l’operato del governo. Va anche detto con chiarezza che, al di là della facile retorica, un eventuale nuovo governo non potrebbe usare la minaccia di un default sul debito con uscita dall’euro per rifiutare l’austerità imposta: perché il costo per l’Italia
(fallimenti in massa di banche e imprese) sarebbe maggiore dell’austerità. Ritengo quindi improbabile una crisi finanziaria legata al debito italiano così devastante da rischiare una ristrutturazione del debito pubblico, mettere a repentaglio l’euro o richiedere un piano di salvataggio; almeno da qui alle elezioni tedesche. Misera consolazione. Perché non è lo spettro di una crisi finanziaria prossima futura che deve preoccupare, ma le prospettive dell’Italia oltre le elezioni tedesche e il prossimo, già perituro prima di nascere, Governo italiano. È ormai chiaro che, così come è, l’Eurozona, non può sopravvivere a lungo. Nella migliore delle ipotesi ci attendono anni di crescita “zero virgola”; un aggiustamento delle partite correnti, già in corso, (per tornare a esportare risparmio e non dover dipendere più dagli investitori esteri), attraverso
una svalutazione dei nostri salari rispetto a quelli dei paesi in surplus e una compressione della domanda interna; l’onere dell’intero debito pubblico, che gli stranieri ci stanno rivendendo indietro; e una stretta creditizia duratura, visto l’imperativo per le banche di ridurre il rischio degli attivi, la loro difficoltà a finanziarsi, e la bassa redditività.
Si ripete alla nausea che per uscirne ci vorrebbe la crescita. Ma la crescita non si fa per decreto, né con nuova spesa pubblica o altri interventi pubblici nell’economia (lo Stato è già bulimico e di dirigismo ce n’è anche troppo). Contare sull’intervento salvifico di un buon governo è una bella illusione. Né si può contare sulla domanda estera. Perché una forte svalutazione dell’euro è da escludere: gli Usa non accetterebbero mai che l’Eurozona esporti la sua recessione. E perché difficilmente la Germania cambierà il suo modello di crescita orientato all’export, a favore dei consumi interni, dopo 10 anni di sacrifici per rendere le sue industrie competitive nel mondo. All’Italia servirebbe un Piano B, che sparigli le carte. Ma non vedo quale Governo abbia le capacità di pensarlo, il coraggio di proporlo, e la determinazione di realizzarlo.