Cralo Verdelli, la Repubblica 2/3/2013, 2 marzo 2013
LA CORSA DI SCOLA, RAGAZZO DEL LAGO
Undici sfumature di grigio. Assicura di averle contate, una per una, nelle ore passate a guardare il suo lago, dalla sponda di Malgrate, di fronte a Lecco. E il grigio, per quanto suoni insolito, è il suo colore preferito. Anche se a scorrere la carriera di Angelo Scola, che entrerà in conclave come l’italiano con più possibilità di uscirne Papa, tutto viene in mente tranne che il grigiore.
“LA Lombardiaè chiamata ad essere il cuore credente dell’Europa” (Benedetto XVI, 16 febbraio 2013, già dimissionario) Il rosso porpora, piuttosto, visto che diventa vescovo di Grosseto a 50 anni, patriarca di Venezia a 61, arcivescovo di Milano a 69.
Le ultime due cariche, prestigiosissime, hanno dato alla Chiesa cinque dei nove pontefici del Novecento. E nessuno, da secoli e secoli, le ha ricoperte entrambe. Lui sì, e non sarà un caso se i bookmakers inglesi lo piazzano tra gli aspiranti meglio quotati, mettendo nel conto anche quanto sia “stimato dai più stimati”, a cominciare da Ratzinger, con il quale ha una consuetudine antica e un’amicizia
cementata da piccole affettuosità: l’allora Benedetto XVI, appena insediato, faceva mettere in tavola bottiglie con il tappo a corona e fu proprio Scola a indicargli la retta via, rifornendolo di buon vino.
Quando l’11 febbraio la telefonata di un collaboratore lo avvisò delle dimissioni del “suo” papa, Scola vacillò: “Impossibile, impossibile…” Realizzato che non lo era, pur dotato di spalle larghissime, in senso
stretto e lato, stordito si accasciò: “È come prendere un pugno nello stomaco”. Il colpo non è di quelli che si assorbono subito, neppure per un uomo di lago come lui, duro, forte fisicamente, sbrigativo,
algido secondo alcuni, timido e concreto per altri, uno che non ti abbraccia, che magari suscita affetti ma che non dà mostra di ricambiarli.
«L’ho visto all’ultima via Crucis,
su Telenova, e non era il don Angelo che conosco io», dice Francesco Ferranti, suo coetaneo di Malgrate. «Era preoccupato, pensieroso. Secondo me non ci tiene a fare il papa. Ma sa, non è lui che comanda». E da ragazzo comandava? «Era il primo della classe, passava i compiti agli altri. Ma non era un tipino calmo. Una volta è arrivato in ritardo alle orazioni, e la suora l’ha messo in ginocchio sui chicchi di granoturco. È una cosa che lui ha sofferto tantissimo, borbotta che ha ancora i segni di quella punizione». Aveva i capelli rossi, Scola bambino. Viveva in una casetta nella parte alta del paese (allora mille anime, oggi 4 mila con gli immigrati), dove il lago finisce. A lui piaceva tanto, Malgrate, la chiamava la “Venezia del Lario”.
Famiglia povera: padre (Carlo) camionista e socialista nenniano, massimalista al punto di non condividere l’apertura del leader al centrosinistra; madre (Regina Colombo) casalinga, molto devota (“insieme al latte mi ha passato la fede”); un fratello più piccolo e più dolce di lui, Pietro, che poi sarebbe diventato maestro elementare e sindaco per la Dc. Morì trent’anni fa in un incidente stradale, scendeva da Lavarone su una macchina con quattro gomme nuove, una scoppiò. Scola a quel tempo insegnava all’università di Friburgo: lo venne a sapere per telefono, come con Ratzinger. Annoterà: “Ero stranito, pensai ai miei genitori vecchi, a sua moglie, le sue bambine. Mia cognata sta riuscendo solo ora ad accettare che anche quella disgrazia è per un bene. Del resto, come dice san Tommaso, il dolore di una sposa per la perdita del marito è più grande di quello di una madre per quella di un figlio”. Sulla graduatoria del dolore si può discutere, san Tommaso permettendo. E forse anche sul tono asciutto, quasi distaccato, di questa riflessione.
Ma a parlare è già lo Scola “travolto dal Cristo”, lo Scola folgorato a fine anni Cinquanta da don Giussani, di cui diventa discepolo prediletto e alfiere della neonata Comunione e Liberazione.
Quello di Malgrate è sì un secchione, come dicono gli amici di al-
lora, ha una memoria prodigiosa, studia latino e greco talmente ad alta voce che al piano di sotto non ne possono più. Ma è anche un ragazzino introverso, taciturno, capace di mattane come tuffarsi d’inverno nelle sfumature di grigio del lago e fare la traversata fino a Lecco, un chilometro scarso ma ci sono le correnti. Certo che va a messa, come tutti, compreso il padre socialista, ma non è un bigotto (“stavo in ultima fila, con una certa voglia di uscire”). Al liceo classico si butta su Dostoevskij, Faulkner, persino Kerouac. Prova anche l’ebbrezza di un amore, fidanzato con una ragazza che ricordano molto bella. Finirà con lui che sceglie la strada del Signore e lei lo stesso: monaca di clausura tra le trappiste, di cui diventerà badessa. La sintesi la fa un amico di quei primi tempi, Cagliani Alfredo, grafico pubblicitario pensionato dai computer: “Angelo aveva qualcosa più di tutti noi. E qualcosa è anche poco. È partito col piede giusto sin da piccolo”.
Strada facendo, il cammino di Scola si fa sempre più spedito e sicuro. Don Giussani gli accende la
vocazione (diventa prete a 29 anni) e in qualche modo lo marchia per sempre. Maestri come Hans Urs von Balthasar e Karol Wojtyla lo temprano a fuoco. Amici come l’arcivescovo di Vienna Schonbörn, quello di Budapest Erdo e il canadese Ouellet (guarda caso, tre papabili) condividono l’ascesa che lo porta, per la prima volta, dentro il cuore vaticano: rettore
dell’Università Pontificia Lateranense a Roma, che riforma e rilancia con la determinazione di un caterpillar. A Milano, che è la più grande diocesi del mondo, con 1107 parrocchie, ha usato lo stesso metodo. Se la gestione precedente di Tettamanzi aveva praticamente lasciata invariata la curia di Martini, lui in pochi mesi ha cambiato
tutti i sette vicari di zona e snellito l’organizzazione, accentrandola. Inoltre ha messo il suo stemma vescovile al cancello dell’ingresso, a fianco del Duomo. Prima, non c’erano stemmi. Il suo è un programma: “Sufficit gratia tua”, iscritto sotto una nave che fluttua su un mare (o un lago) e una stella d’oro nel cielo.
Potente nell’azione, piuttosto imponente nel fisico, 71 anni e non sentirli, tranne che per qualche violento mal di testa e un po’ di artrite all’indice della mano sinistra, Scola vive nella stessa stanzetta che fu di Tettamanzi, al secondo piano di un quadrilatero lungo e basso, con il lato corto su piazza Fontana, davanti alla lapide di Pinelli e alla Banca dell’Agricoltura. A condividere le sue giornate, un segretario, don Luciano, prelevato da Malgrate e con cui parla in dialetto lecchese, più quattro “memores domini”, suore laiche appartenenti a Comunione e Liberazione (Tettamanzi aveva una perpetua). Rieccoci, cardinale. “Ma è possibile che uno debba avere non uno ma due peccati originali?”, sbotta Scola quando
gli vengono chiesti pareri sugli scandali di Formigoni, ciellino e per di più lecchese. “Negli ultimi vent’anni, l’avrò visto sì e no per gli auguri di Natale”. Un vescovo non può avere appartenenze, continua a ripetere. Quanto alle famose lezioni di filosofia e di etica dispensate da lui e don Giussani negli anni Settanta al nascente Berlusconi, e ai suoi manager Dell’Utri e Confalonieri, la presa di distanza è ancora più netta: capitò una volta sola. A occhio, non deve essere servita a molto. In compenso, il cardinale tifa Milan e coltiva una predilezione mai sopita per Kakà.
La sua giornata tipo, fino a oggi, fino al conclave che dal 10 o 11 marzo potrebbe cambiargli la vita, è quella di uno che si ammazza di lavoro. Sveglia alle 6, con due preghiere, L’Angelus e Ti adoro mio Dio. Messa alle 6 e mezza, colazione, agenda stracolma di impegni dentro e fuori le mura. La sera, cena con acqua frizzantissima e preferibilmente cose salate, acciughe, olive, molto apprezzate le polpette. Poi scrittura, fino a notte. E prima di dormire, l’orazione più amata, il
Memorare, un consegnarsi alla clemenza della Madonna, scritta da san Bernardo di Chiaravalle e fatta propria anche da Madre Teresa di Calcutta. Non ha telefonino, sua Eminenza, ma è attivissimo sui nuovi media: un sito a suo nome, una pagina Facebook piuttosto desolata, una discreta attività su Twitter (ultimo cinguettìo: “Non come voglio io, ma come vuoi tu”. L’infinito — in cui solo si quieta il nostro cuore inquieto — si è fatto finito per farsi incontrare e amare da noi). Nell’ultima via Crucis che ha celebrato nel Duomo di Milano, stracolmo di 5 mila fedeli, e prima di partire per ricevere, insieme agli altri cardinali, l’ultimo saluto del Papa che non se l’è sentita, Angelo Scola si è concesso uno strappo
al protocollo. Al momento di congedare tutti, ammonendoli di uscire dalla cattedrale in silenzio, ha rivolto un pensiero pieno di gratitudine a Ratzinger e azzardato un verbo, “purificare”, mai usato prima nei confronti della Santa Chiesa di Dio. Se toccherà proprio a lui diventare il pontefice numero 266, se la croce che “piomba come un rapace sul nostro quieto quotidiano” finirà per piombare sul suo di quotidiano, almeno ha molto chiaro quel che lo aspetta. Mai come oggi, la sua Chiesa è nuda e offesa. Benedetto XVI ha avuto il merito storico di denunciarlo e la consapevolezza di non essere più in grado di riparare il male. Avanti il prossimo. Toccasse a don Angelo, il ragazzo del lago, provare a far risorgere la Chiesa, c’è un precedente che potrebbe aiutare a comprendere da che parte comincerà. Quand’era vescovo di Grosseto, fondò un centro di cultura politica intitolato a Ildebrando di Soana, poi diventato Gregorio VII. Passò alla storia come il Papa che obbligò l’imperatore Enrico IV a genuflettersi a Canossa.