Sebastiano Messina, la Repubblica 2/3/2013, 2 marzo 2013
I MILIONI DEL GOLPE BIANCO CHE FECERO CADERE IL GOVERNO
Silvio Berlusconi le aveva dato un nome in codice che aveva il suono degli ideali e il profumo dei sogni: «Operazione Libertà». Più prosaicamente, Sergio De Gregorio, il senatore dipietrista che si fece comprare al non modico prezzo di tre milioni di euro, ha usato il lessico militare: «Sabotaggio». Sabotaggio del governo Prodi, buttato giù il 24 gennaio 2008, si scopre adesso, con la corruzione dei parlamentari che erano stati eletti nella sua maggioranza e dovevano votargli la fiducia. Mettendo sul tavolo i soldi, tanti soldi, tutti in nero. Usando segreti giudiziari per destabilizzare un capopartito. Offrendo patti inconfessabili a chi doveva semplicemente restarsene a casa, facendo mancare il suo voto decisivo. Non è solo uno spaccato sconcertante e scandaloso della corruzione eletta a strumento della politica, quello che affiora dalle carte dell’inchiesta napoletana che coinvolge Berlusconi, De Gregorio e l’editore-faccendiere Valter Lavitola.
È soprattutto l’illuminante radiografia di un’operazione che configura «un attentato alla democrazia», come dice la vittima di quel complotto, Romano Prodi: «Un vero e proprio atto di corruzione che, se confermato, avrebbe certamente cambiato la storia
del nostro Paese».
BANCONOTE DA 500 EURO
Volendola raccontare, forse è giusto dunque chiamarla in un altro modo: tecnica di un golpe
bianco. Perché leggendo la desolante confessione di De Gregorio — l’uomo che incassava pacchi di biglietti da 500 euro e aveva persino l’ingenuità di domandare “scusate, ma perché me li date in nero?” — scorrendo l’inquietante ricostruzione degli eventi che i magistrati hanno appena consegnato al Parlamento, è difficile sfuggire al sospetto che sedici anni di vita politica italiana, dal primo voltagabbana che nel 1994 consentì a Berlusconi di avere la fiducia al Senato fino all’ultima transumanza pilotata, quella con cui i “Responsabili” evitarono al Cavaliere di cadere alla Camera alla fine del 2010, siano stati inquinati, avvelenati, truccati da un inconfessabile fiume carsico di milioni in nero, distribuiti a piene mani da un uomo che ha sempre creduto che tutti, alla fine, abbiano un prezzo.
L’OPERAZIONE LIBERTA’
Dei soldi sappiamo già tutto. Quella che De Gregorio, con linguaggio da ragioniere, ha definito «la mia previsione di cassa», era di tre milioni di euro, anche se poi Lavitola gliene consegnò solo due, «in tranches da 200 e 300 mila euro ». A partire dal mese di luglio 2006: e la data è importante, perché in quel momento, e ancora per altri due mesi, De Gregorio è un senatore del gruppo di Italia dei Valori. Eletto dai dipietristi,
da Berlusconi. Pagato per fare cosa, esattamente? Siamo nel 2006, Prodi ha vinto d’un soffio le elezioni e ha una maggioranza risicatissima al Senato: il margine è di quattro voti, basta che due passino dall’altra parte e il governo cadrà.
Così, racconta De Gregorio, lancia la sua Operazione Libertà: «Era deciso a individuare il malessere di alcuni senatori che potessero determinare l’evento finale». In concreto, spiega l’astuto ex senatore napoletano, io ebbi un compito preciso: «Il sabotaggio del governo Prodi». Avvenne subito dopo la sua elezione a presidente della commissione Difesa con i voti del centrodestra e contro il centrosinistra, che
candidava Lidia Menapace. «Allora discussi a Palazzo Grazioli con Berlusconi una strategia di sabotaggio, che io accettai di adottare rimanendo dentro il gruppo di Italia dei Valori». Come? domandano i magistrati. «Attraverso una serie di azioni che avrebbero indebolito sicuramente il governo all’interno della sua eterogeneità». Per esempio? «I metodi erano diversi», risponde De Gregorio. Il principale però era uno: «Procurarsi dei voti in Parlamento».
L’ODORE DEI SOLDI
“Procurarsi” è una parola anfibia, nel terreno della politica. In Parlamento convincere gli altri a cambiare idea, a sposare la propria causa o ad
accettare un compromesso, è il pane quotidiano. Ma non è del libero convincimento che il furbo De Gregorio sta parlando. Non si tratta di persuaderli, si tratta di corromperli. Di comprarli a uno a uno. L’operazione è ad ampio raggio, come vedremo, ma De Gregorio si assume il compito di acquistare il voto di un compagno di partito. «Dissi a Berlusconi che forse Giuseppe Caforio poteva ascriversi al ruolo degli indecisi ». «Puoi offrirgli fino a cinque milioni» risponde il Cavaliere. Ma l’operazione fallisce: Caforio finge di stare al gioco, registra il colloquio e presenta una denuncia penale. Meno uno.
De Gregorio intanto è stato messo alla porta,
e il 24 settembre del 2006 esce dall’Idv. In commissione Difesa fa il sabotatore, bloccando tutte le richieste del governo, ma in aula continua a votare la fiducia. E’ presto per uscire allo scoperto, bisogna aspettare il momento buono. Berlusconi decide di fare una prima prova il 28 febbraio 2007, quando Prodi viene rinviato alle Camere da Napolitano. De Gregorio vota no, finisce 162 a 157: bisogna conquistare ancora tre senatori, per buttare giù il governo. Ci vorranno altri undici mesi, prima che l’impresa riesca.
LA CADUTA DI PRODI
La prima crepa si apre il 16 gennaio 2008, quando Clemente Mastella arriva sconvolto a
Montecitorio e annuncia in aula le sue dimissioni da ministro Guardasigilli. Cos’è successo? Ha appena saputo che la procura di Santa Maria Capua Vetere vuole chiedere l’arresto di sua moglie. Chi gliel’ha detto? Non si sa, ma lo scopriremo tra poco. Quattro giorni dopo, Mastella ritira l’appoggio dell’Udeur al governo, costringendo Prodi a presentarsi un’altra volta al Senato per la fiducia, il 24 gennaio 2008. E stavolta viene impallinato: 161 a 156.
Scorriamo l’elenco di chi è passato dall’altra parte: accanto a De Gregorio, e a Mastella, ci sono due “liberaldemocratici”, Lamberto Dini e Giuseppe Scalera. E tutti notano l’assenza di Luigi Pallaro, detto “el senador”, eletto in Argentina dagli emigrati. Misteriosamente, invece di presentarsi in aula ha mandato uno strano messaggio: «In questo difficile momento di crisi non partecipo al voto per lasciare spazio alle decisioni del capo dello Stato». In Parlamento si sparge l’odore dei soldi. Qualcuno è stato corrotto, accusa il Pd. Ma le prove, dove sono le prove?
LAVITOLA RIVELA IL PIANO
Le prove, i magistrati le trovano in una lunga lettera che il faccendiere Valter Lavitola ha inviato a Berlusconi dalla latitanza in Brasile (latitanza consigliatagli dallo stesso Cavaliere, risulta agli atti), un documento che i magistrati napoletani definiscono «di fondamentale e speciale importanza». Al presidente del Consiglio, il 13 dicembre 2011 il faccendiere latitante chiede aiuto, ricordandogli i debiti che ha verso di lui: «Lei subito dopo la formazione del governo, in questa legislatura, con Ghedini e Verdini presenti, mi disse che era in debito con me e che Lei era uso essere almeno alla pari. Era in debito per aver io “comprato” De Gregorio, tenuto fuori dalla votazione cruciale Pallaro, fatto pervenire a Mastella le notizie dalla procura di Santa Maria Capua Vetere, da dove erano arrivate le pressioni per il vergognoso arresto della moglie, e assieme a Ferruccio Saro e al povero Comincioli “lavorato” Dini. Ciò dopo essere stato io a convincerLa a comprare i senatori necessari a far cadere Prodi».
Ecco cosa prevedeva dunque l’Operazione Libertà, ed ecco chi ne era stato il braccio esecutivo (non l’unico, come vedremo). E’ un millantatore, questo Lavitola? Macchè. Come lui stesso ricorda puntigliosamente nella lettera, oltre alla promessa di un seggio al Parlamento europeo o di un posto nel cda della Rai, Berlusconi gli
aveva già concesso molte cose: «La Ioannucci nel cda delle Poste (aveva promesso di darle anche la presidenza di Banco Posta, anche se ciò non è stato mantenuto) e il commissario delle dighe (ruolo inventato da me con Masi, quando era a Palazzo Chigi». Non solo, ma il Cavaliere aveva anche messo mano al portafogli: «Un finanziamento all’Avanti! di 400 mila euro nel 2008» e «4-500 mila euro (non ricordo) di rimborso spese per la “Casa di Montecarlo” (...) quando io le portai i documenti originali di Santa Lucia». La “Casa di Montecarlo”, come tutti sanno, è il dossier scagliato contro Fini per vendicarsi della sua uscita dal Pdl.
LA VERITA’ SUI VOTI COMPRATI
Capire quello che accadde davvero quel 24 gennaio 2008, quando Prodi venne abbattuto a Palazzo Madama con un margine di tre senatori, diventa più semplice. De Gregorio era stato comprato a suon di milioni. A Mastella era stata fatta arrivare al momento giusto una notizia ancora coperta dal segreto istruttorio, spingendolo a rompere con Prodi. Pallaro era stato convinto — non sappiamo con quali argomenti ma possiamo averne un’idea — a restare lontano dal Parlamento proprio nel giorno in cui il suo voto poteva risultare decisivo. L’ex premier Lamberto Dini era stato, per usare l’espressione di Lavitola, “lavorato”. Quanto all’altro “liberaldemocratico”
che con la sua astensione ha dato anche lui il suo contributo alla caduta del governo, il senatore napoletano Giuseppe Scalera, leggiamo quello che dichiara ai magistrati uno dei protagonisti dell’inchiesta sulla P3, Arcangelo Martino: «Sica (ex assessore della Regione Campania,
ndr)
mi disse che Berlusconi doveva a lui la caduta del governo Prodi, in quanto si era adoperato con l’aiuto di un imprenditore ben conosciuto da Berlusconi per convincere, previo esborso di denaro, alcuni senatori a votare contro il governo. Mi fece il nome del senatore Andreotti e del senatore Scalera. Mi mostrò anche dei fogli su cui, a suo dire, vi erano segnati gli estremi dei bonifici». Dei bonifici, però, i magistrati non hanno trovato traccia.
A questo punto, il quadro è nitidissimo. Non serve neanche ricordare le voci di un’offerta di due milioni di euro che si diffusero nel novembre 2007, due mesi prima del colpo di grazia, quando Berlusconi ebbe un lungo incontro con il senatore Nino Randazzo — eletto nel più grande collegio del pianeta: Asia-Africa-Oceania-Antartide — costringendo l’interessato a smentire: «E’ vero, ho visto Berlusconi ma abbiamo parlato solo di Australia. Lui è un incantatore di serpenti». E Randazzo, probabilmente, non si
era fatto incantare.