Olga D’Alì, D, Repubblica 23/2/2013, 23 febbraio 2013
TROPICO CINESE
Atterrando all’aeroporto di Sanya, sull’isola di Hainan, saltano all’occhio le gigantesche scritte di benvenuto in stile hawaiano: “Aloha”. Pochi ideogrammi e nessuna bandiera rossa ad annunciare la Cina Popolare. Se non fosse per gli occhi a mandorla e la stella sul cappello dei poliziotti, si potrebbe pensare di essere davvero nelle più note isole del Pacifico. Le similitudini non mancano: stesso clima dolce, stessi fiori, stesse palme e spiagge infinite.
Forzare il paragone, però, è stata una scelta di marketing, studiata a tavolino. Quando negli anni 90 il governo cinese ha deciso di investire su Hainan per promuovere quello che fino a pochi anni prima era un lusso riservato a una minuscola élite, il turismo, ha pensato di ispirarsi a ciò che nell’immaginario collettivo era la meta di una vacanza da sogno. Adesso pure la Cina poteva permettersi il suo personale paradiso tropicale, “le Hawaii d’Oriente”, appunto. Palme da cocco e mare cristallino a 4 ore di volo da Pechino e senza dover uscire dal paese, procedura complicata perfino per i nuovi ricchi. Golf, surf, yachting e trekking come in Occidente, ma senza rinunciare alla rassicurante sensazione di essere a casa. Anzi, si poteva mirare più in alto, puntando al turismo internazionale. In quattro e quattr’otto, un chiassoso e improbabile completo di bermuda e camicia con palme stampate s’è guadagnato il titolo di “Hainan Fu”, costume ufficiale dell’isola. A Sanya, la città più commerciale e turistica di Hainan, arriva a costare fino a 10 euro e viene venduto (e purtroppo indossato) a ogni angolo. Pazienza se la minoranza etnica dei Li, marinai autoctoni dell’isola, da secoli ha un dignitosissimo costume che, ovviamente, non ha niente a che vedere con le stampe hawaiiane.
Improvvisamente, quella che fino a pochi anni prima era un’isola militarmente strategica per la sua posizione di confine tra il Vietnam e le Filippine, sfruttata a fondo per l’allora abbondanza di alberi da legno, si è vista catapultare addosso valanghe di cemento. Servivano strade, aeroporti (adesso sono tre) e, soprattutto, alberghi, villaggi e appartamenti di lusso per ospitare i potenziali milioni di turisti in arrivo. In pochi anni, buona parte della costa est ha completamente cambiato fisionomia. Hotel a cinque stelle, grattacieli vista mare e soluzioni decisamente più modeste (e lontane dagli standard medi occidentali) sono spuntati come funghi. All’insegna di un piano regolatore che appare spesso privo di logica: lunghi viali perfettamente curati con aiuole fiorite e lampioni con micropale eoliche e pannello solare, finiscono nel nulla. E interi paesi costruiti a tavolino risultano completamente deserti, creando un inquietante effetto Truman Show: “È come mettersi calze e scarpe prima di essersi infilati i pantaloni”, spiega Paul Stanley, biochimico californiano stanziato a Shanghai, che ad Hainan trova una valvola di sfogo al clima della megalopoli. La zona sud di Sanya, ufficialmente ribattezzata Sanya Bay Resort District, è l’equivalente della costa Brava in Spagna: è stato addirittura costruito un isolotto artificiale, Phoenix Island, per supportare cinque enormi grattacieli stile Dubai, i cui appartamenti superano i 10 mila euro al metro quadrato.
Il centralissimo quartiere Dadong Hai, vicino al mare, è ormai invaso da luci di palazzi di 20 piani, resiste stoicamente una piccola villa a due piani, sede di un ottimo ristorante italiano, il Marco Polo. Le intenzioni governative sono state raggiunte e per i cinesi “l’Isola”, come chiamano Hainan, è diventata una meta sognata, perfetta per la luna di miele, come le Hawaii, ma anche per una vacanza con la famiglia o, al contrario, per weekend clandestini con la segretaria/amante, come nelle commedie anni 60. Viene presa particolarmente d’assalto in febbraio, durante il capodanno, quando le scuole chiudono per quasi un mese, il clima è al meglio, ma i prezzi lievitano in maniera folle (si arrivano a spendere 5 mila RMB, quasi 600 euro, a not¬te). E non è raro assistere a scene assurde: orde di gente che spesso vede il mare per la prima volta (e non sa nuotare) si riversa in spiaggia munita di ombrellino antisole e salvagenti tanto giganti quanto poco funzionali: non pochi finiscono travolti dalle onde, versione in scala delle gemelle hawaiiane. Un minimo più tutelati sono i turisti affidati a un tour operator: scesi dal pullman, li aspetta un giubbotto di salvataggio che terranno addosso fino alla risalita sul mezzo, 4-5 ore dopo. La giornata standard prevede, a scelta, un giro sulla banana-boat o in kayak o, per i più arditi, una variante del bodysurf con tavolette scarsamente idrodinamiche. A seguire: barbecue in spiaggia, karaoke e di nuovo sull’autobus verso l’albergo.
Se siete occidentali e vi aggirate per le strade di Dadong Hai, vi sentirete quasi sicuramente rivolgere la parola in russo: grazie all’accordo tra i due paesi, ai cittadini dell’ex Unione Sovietica non serve il visto. Così insegne e menù dei ristoranti sono in cirillico più che in inglese e sul viale principale, Yuya Road improbabili negozi, con 30 gradi e pochi scrupoli, vendono pellicce di ermellino. La stessa zona la sera si accende di discoteche e nightclub.
Eppure, perfino in mezzo a tutto questo, a Sanya esistono i germogli di un turismo diverso, più discreto e raffinato, con una sensibilità ecologica, consapevole della bellezza unica di questa costa, dove crescono rare piante tropicali ed è possibile vedere farfalle degne del National Geo¬graphic. Un turismo “melting-pot”, fatto di ricchi cinesi illuminati e artisti in fuga dalle megalopoli, expat europei, americani e australiani, che qui trovano un’alternativa alla fre¬nesia e all’inqui¬na¬mento delle megalopoli, che ormai lo stesso governo è pron¬to a riconoscere. Filo conduttore, qua¬si sempre il recente interesse per gli sport outdoor d’acqua (immersioni, surf, kite) e montagna (trekking, arrampicata, rafting) che, come già in altre zone della Cina, vedi Yunnan e Gunangxi, promuove la nascita di guest house e resort ecosostenibili.
La qualità delle onde presenti tutto l’anno ha permesso dal 2011 di ospitare qui i campionati mondiali di surf. Gare come la Swatch Girls Pro dello scorso novembre sono seguite da milioni di persone, con passaggi in prima serata sulla nazionalissima CCTV. Ad Hainan, infatti, esiste una piccola ma interessante comunità surfistica: Darci Liu è la prima surfista professionista cinese e da anni ha deciso di trasferirsi proprio a Sanya, dove, sulla spiaggia di Dadong Hai, ha aperto un bar con annessa scuola di surf. Succhi di frutta naturali, sandwich con pane fatto in casa, pizza, espresso e buona musica, il corner emerge dal marasma commerciale che segna la spiaggia. La aiutano tre ragazzi italiani, scappati dalla foschia lombarda e dalla più deprimente nebbia di crisi. “Non avevo niente da perdere: ogni giorno due ore sulla tangenziale tra Busto Arsizio e Milano Sud, e uno stipendio da miseria. Qui lavoro davanti al mare e riesco a mantenermi decorosamente”, dice Paolo, approdato a Sanya da sei mesi. Dal centrocittà basta prendere l’autobus 28, e con 11 RMB (circa un euro e 50), in 45 minuti si raggiunge Houhai, uno dei pochi villaggi di pescatori ancora esistenti. Qui il clima è diverso, pare di essere nella Bali degli anni 70, nessun grande albergo o discoteca, ma piccole guest house sul mare, ristoranti locali ruspanti a buon mercato, una farmacia, spiagge semideserte. Un angolo di Cina piacevolmente autentico e una sempre più apprezzata alternativa al Truman Show.