Carlo Bertini, La Stampa 1/3/2013, 1 marzo 2013
Gotor, lei è uno dei più stretti consiglieri di Bersani. Nel Pd son già scattate le faide contro il segretario
Gotor, lei è uno dei più stretti consiglieri di Bersani. Nel Pd son già scattate le faide contro il segretario. Si dovrebbe dimettere? «Per semplificare: se si farà il governissimo, con dentro il Pdl e Berlusconi, non ci sarà Bersani. Abbiamo già dato. E in ogni caso nel Pd ci sono organi dirigenti che dovranno esprimersi con un voto e un percorso per il congresso. E se ci sarà una richiesta in tal senso ci si conterà. Bersani da mesi dice che non si ricandiderà alla segreteria e non è disponibile a guidare il Pd in un governissimo. In questo caso, si dovrà trovare un altro segretario, ma per farlo bisogna avere i numeri. Eviterei di dare la rappresentazione di un Pd che continua a farsi del male nel chiuso di se stesso, e l’ultima cosa di cui il partito avrebbe bisogno in un momento così delicato è mettere in discussione un centro di responsabilità e di prospettiva per l’Italia. Vedo riflessi di veterocomunismo e veterodemocristianismo in questo dibattito incentrato su autocritiche di facciata e riposizionamenti tattici. Stiamo scherzando con il fuoco, il Paese ha bisogno di essere governato e stabilizzato, gli italiani hanno parlato e la situazione richiede la ricerca di una maggioranza al Senato». Perfino Enrico Lettadice che lacarta del futuro è Renzi. Concorda? «Renzi è una risorsa del Pd, ma non credo che il futuro possa nascere nelle attuali condizioni. Si tende a dimenticare che ci sono state proposte politiche costruite attorno all’agenda Monti, rivelatesi minoritarie nelle urne e questo discorso interroga anche lui. Ma affrontare la questione a partire dalla leadership e dalle forme di comunicazione è un modo autoreferenziale di procedere. I processi avvenuti sono estremamente profondi: gli 8 milioni di voti che ha preso Grillo non sono soltanto il prodotto di una militanza sui social network o di una piazza riempita. Qui c’è un fenomeno più grosso sul piano sociale, una mescolanza di alto e basso, un voto moderato anti-sistema che si confonde con un movimentismo antiparlamentare ed extraparlamentare di sinistra. C’è anche una protesta e una critica molto decisa che viene da sinistra a un modo di essere della sinistra che interroga il Pd e non deve essere inseguita, ma ascoltata con umiltà». Qualche autocritica sul modo di condurre la campagna elettorale? «Vedo riflessi di tafazzismo. Siamo ancora dentro un processo politico aperto e non è il momento di consumare ambizioni personali, sfogare rancori o tentare l’occupazione di posti. Se l’analisi corretta è quella di una crisi di sistema economica, politica e istituzionale, il Pd ha il dovere di continuare il suo impegno per rappresentare una possibile risposta che coincide con il coraggio e la pratica del cambiamento. Chi si ferma ora è perduto, nel dinamismo c’è l’unica speranza». E se si votasse tra sei mesi? «Vorrebbe dire che Grillo avrebbe rifiutato una proposta con punti così qualificanti anche verso il suo elettorato che non credo vincerebbe le elezioni. Se il Pd facesse il governissimo farebbe la fine del Pasok greco. E invece un partito ha il dovere di stare in connessione sentimentale, per usare un’espressione di Gramsci, non con le architetture di sistema ma con il proprio popolo. Che ha parlato in maniera chiarissima e solo un sordo può non sentirlo. Siamo in montagna con la bufera, si procede un passo alla volta, prima di fare il passo successivo devi vedere se hai messo bene il piede sul terreno. Non credo che il tema dei 5 Stelle sia riducibile alle poltrone, per l’energia e la forza della critica che porta con sé: la vedo più complicata. Tocca a noi e faremo una proposta rivolta a tutto il parlamento su cinque o sei punti: e chi dirà no si assumerà la responsabilità di non consentire il cambiamento. Trasformandosi da forza anti-sistema a forza di conservazione di una palude. Stiamo cercando di portare l’Italia fuori da questa palude e lo faremo con chi è libero e forte».