Pino Corrias, il Venerdì 1/3/2013, 1 marzo 2013
DA KABUL A CASTEL VOLTURNO IL NUOVO FRONTE DEI MEDICI DI EMERGENCY
CASTEL VOLTURNO (Caserta). Il pullman rosso di Emergency sta parcheggiato sulla linea del fronte, dove si combatte la guerra per la sopravvivenza. Non siamo in Afghanistan. Ma, ai bordi dell’ultima rotonda prima di Castel Volturno, provincia di Caserta, dentro al paesaggio esploso di case abusive, liquami e spazzatura, dove muore un pezzo di Italia e accanto crescono gli agrumi e gli schiavi. È l’ora del tramonto, quando i campi si svuotano e la guerra si riposa per la notte.
Joy arriva per primo. Ha 26 anni. Quattro inverni fa, è partito a piedi dal suo villaggio in Ghana, con una bottiglia d’acqua e un indirizzo. Poi è salito su un camion che trasportava mais lungo la diagonale del Niger. Poi in autobus respirando la polvere della Libia, fino al mare che non aveva mai visto. Il mare è terminato a Mazara del Vallo. L’indirizzo era fasullo. Ma i sogni hanno resistito per molte delle strade asciutte dove ha venduto la sua forza lavoro, dodici ore in cambio di 20 euro al giorno. Almeno fino a quando Joy è caduto dall’impalcatura, si è scassato la spalla e al posto della forza gli è cresciuto un callo osseo che non lo fa dormire. Per questo è arrivato sin qui: «Vorrei una medicina e un po’ di sonno».
Il medico di turno è una roccia di ragazza. Si chiama Ersilia Castaldo, ha 31 anni. Fa l’internista all’ospedale romano di Tor Vergata. Il suo turno di «volontariato attivo» durerà due settimane. Ersilia ha gli occhi che sorridono e racconti che fanno piangere. Visita fino a trenta uomini al giorno, tutti con gli stessi muscoli sfiancati, le articolazioni in fiamme, la schiena rotta: «Sono malattie da fatica», spiega. Ma c’è anche di peggio: «Nella prima settimana ho controllato tre casi di Hiv, una epatite C, tre bronchiti croniche, dermatiti da contatto con il veleno degli anticrittogamici, gastriti da malnutrizione e un tizio alto 1 metro e 78 che pesava 48 chili. Pensavo che la bilancia si fosse rotta, ho controllato, gli ho chiesto ma tu mangi? E lui: si, anche due volte la settimana, mi ha risposto. Non aveva nessuna malattia, ma rischiava di averle tutte». Gli hanno dato un pacco di biscotti, acqua, vitamine e l’indirizzo della mensa Caritas.
L’ambulatorio di Emergency si chiama Polibus. Ha un programma di cure e di ascolto. Viaggia da dieci mesi nei molti inferni della nuova povertà dei migranti e di quella antica dei disoccupati italiani. Da dicembre percorre i 27 chilometri della via Domiziana con una squadra che andrebbe a meraviglia per un seriale tv. Fatah è l’autista, 50 anni, scuro e duro di pelle, viene dalla Tunisia, ha fatto il camionista per cinque anni: «Dopo avere masticato un milione di chilometri, conosco tutte le strade d’Italia. Tu chiedimene una e io ti dico come arrivarci». Il mediatore culturale è Guzman, un ragazzone senegalese più nero della notte, che compila i questionari dei pazienti in italiano, parla inglese, francese, tre dialetti africani e a cena ti guarda sbalordito: «Ma come non conosci il Senegal? È il Paese più bello del mondo, se vuoi un giorno ti ci porto».
La responsabile sanitaria è Fernanda, 62 anni, infermiera, come vuole la regola di Emergency, perché i medici sono sempre a rotazione, mentre lei è fissa. Viene da Reggio Emilia e parla sbrigativa in quella maniera lì. È volontaria da cinque anni, da quando è andata in pensione, dopo 40 di ospedale. I migranti la chiamano Yaye Fall, la mamma dei discepoli, ma lei un figlio ce l’ha per davvero, Jacopo, 23 anni: «Quando sono partita gli ho giovanotto, te la senti di stare da solo? E anche se aveva il punto di domanda, la mia non era una domanda. Lui nel frattempo è maturato. E io anche. Quando torno a casa, una volta al mese, mi faccio perdonare con le lasagne».
Lei conosce quasi tutti quelli che salgono sul Polibus. Li mette a sedere, ascolta le novità, si informa su chi non è venuto. Chiede burbera, ma quando racconta le loro storie si scioglie: «Un mio amico medico dice che soffro di incontinenza emotiva. Ma a me ogni volta che ne sto curando uno, mi viene voglia di piangere e di chiedergli scusa». E spiega: «Vivono in condizioni che neanche riusciamo a concepire. Sanno benissimo di essere sfruttati e trattati peggio dei cani, che almeno ai cani noi bianchi gli diamo le crocchette. Ma hanno bisogno e accettano tutto. E quello che mi commuove è che appena gli fai un gesto di aiuto, ti sorridono con una gentilezza disarmante».
L’ultimo del gruppo è Michele Iacoviello, che poi sarebbe il numero uno, il referente dell’avventura, 34 anni, la barba di un giorno, la sigaretta appesa, la pazienza infinita. Viene da Roma. Gira lungo questo fronte interno da due anni. Ha cominciato con un programma di vaccinazioni tra i Rom in Puglia. Poi la Sicilia delle serre, poi l’inferno di Rosarno e il purgatorio di Carpi, dopo il terremoto. Da sei mesi è sul Polibus e sta monitorando la provincia, perché «è il vero crocevia di tutta la manodopera che risale la Penisola». Tanti ne partono, tanti ne arrivano: in media ventimila stanziali, un terzo della intera popolazione. Con tutte le tensioni che ne conseguono, le tendopoli, la camorra, la convivenza in un territorio dove il lavoro manca per tutti. «E naturalmente la situazione sanitaria che è sempre più esplosiva».
Racconta: «Con questo ambulatorio viaggiante cerchiamo di fare una medicina di base come si faceva un tempo, con visite molto accurate. E poi di accompagnare i casi più gravi alle Asl locali». Per riuscirci, devono fare i conti con la diffidenza dei migranti verso le pubbliche autorità, «perché hanno sempre paura di essere denunciati, rimpatriati, oppure semplicemente di non essere capiti». E contemporaneamente combattere le infinite lentezze del sistema sanitario, la burocrazia, gli ambulatori senza personale, gli ospedali intasati, gli orari strampalati. «In certi ambulatori devi andare a prenotarti alle 8 del mattino e poi tornare alle 14 e farti trovare in fila perché il medico arriva solo nel pomeriggio. Così se ne va via una intera giornata di lavoro, per cui i migranti non tornano o non ci vanno proprio: visitiamo uomini che non vedono un medico da anni». Compresi quelli con malattie croniche, come il diabete, che avrebbero diritto all’assistenza e non lo sanno perché nessuno glielo ha detto. «Noi gli spieghiamo non solo la malattia» dice la dottoressa Castaldo, «ma anche i loro diritti».
Dopo Joy tocca a Kophi, 21 anni, che vorrebbe tornare in Liberia e aprire una farmacia, anche se al momento possiede solo i vestiti che indossa e la fascia con cui tiene appeso il braccio ferito. Poi Steven, 25 anni, tre in Belgio, che sta perdendo la vista per il distacco della cataratta. Poi Mira, che fa la prostituta, come al solito ha bevuto troppo, e non parla con nessuno tranne che con la dottoressa. Il primo bianco arriva dopo dieci pazienti neri. Si chiama Roberto, abita da queste parti, ha 28 anni, pesa 120 chili, è disoccupato da sempre, soffre di insonnia ed è l’unico che si scoccia quando Fernanda, che controlla il modulo appena compilato, gli chiede se mangia, cosa mangia, che malattie ha avuto, quanti siete in famiglia: «Ohè signo?, ma qui mi visitate o è un interrogatorio?».
Forzati dalla crisi, gli italiani che approdano alle visite gratuite dei medici di Emergency sono i più spaesati e talvolta i più insofferenti. «Però ci sono anche le vecchiette carine, che vivono con 300 euro di pensione al mese, e che a fine visita ti benedicono».
Alle otto di sera, il Polibus è pieno. I ragazzi sbucano dalla nebbia e dal nulla. Vengono dagli agrumeti dove stanno raccogliendo gli ultimi mandarini. Hanno tutti gli stessi chilometri addosso e la stessa fatica. Quest’estate hanno raccolto i pomodori da Foggia al Salento. Poi i cocomeri in Calabria. Poi l’uva in Sicilia e Puglia. Hanno dormito in accampamenti di fortuna, bevuto l’acqua dei pozzi, mangiato pane e cipolle. Oppure digiunato. Sono scappati ai controlli. E si sono messi in fila, alle cinque del mattino, sulle rotonde delle statali, quando il caporale italiano passa con il furgone a scegliere i più giovani per ingaggiarli a giornata. E loro accettano, come dice Fernanda, «di diventare merce che raccoglie altra merce».
In questo spazio neutro che li accoglie (li cura, li ascolta) tornano finalmente corpi umani, trattati come si dovrebbe, con un nome, una storia. «Mi viene in mente racconta Michele Icoviello, «che l’altro giorno stavo seduto davanti a un funzionario in uno di questi Comuni sciolti per camorra che mi guardava annoiato mentre provavo a spiegargli il nostro progetto. E a un certo punto mi ha chiesto: ma voi siete quelli che andate appresso alle balene? No, quella è Greenpeace, gli ho risposto. Noi siamo Emergency, andiamo appresso agli umani». Che è un buon modo di dire l’essenziale su questo ambulatorio e sul suo viaggio.
Pino Corrias