Paolo Di Stefano, Sette 1/3/2013, 1 marzo 2013
AL CONSERVATORIO TRA ARPE, MELTING POT E STUDIO DIGITALE
C’è un’atmosfera, al Conservatorio Giuseppe Verdi di Milano, che mette di buonumore. Un viavai allegro di ragazzi e ragazze, nella cornice cinquecentesca dell’ex monastero della chiesa di Santa Maria della Passione. Un misto di antico e moderno, la solennità di un organo che riempie il chiostro antico e, un poco più in là, il suono di un sax che s’impenna. Una sfilza di allievi illustri dalla fondazione, nel 1808, per due secoli, da Ponchielli, Puccini, Mascagni a Luciano Berio e oltre. Non Giuseppe Verdi, respinto il 22 giugno 1832 all’esame di ammissione e ripagato qualche decennio dopo, quando gli fu intitolato l’istituto di formazione musicale più importante d’Italia. Sorride, il compositore Giovanni Possio, raccontando certi scherzi della storia. Si è diplomato qui con Giacomo Manzoni e ora insegna in queste aule.
Strumento assai poco angelico. Non c’è luogo, come un conservatorio, in cui si trovi una popolazione anagraficamente tanto diversa. Figurarsi i 1.500 allievi del Verdi. Si passa dalla piccola Ariela, che a dieci anni studia arpa, al quasi trentenne già diplomato in musicologia che si specializza in composizione con il maestro Possio. Ariela non tradisce emozione quando la sua maestra, Anna Maria Palombini, le chiede di suonare un valzerino sulla Victor Salvi: «Con la fatica che richiede, l’arpa è lo strumento meno angelico del mondo».
La direttrice Sonia Bo ha puntato molto sulla varietà, e non nasconde l’orgoglio quando accenna all’ampiezza dell’offerta didattica, che spazia dal violino barocco alla musica elettronica, al jazz. «Un conservatorio non conserva soltanto, dice, deve guardare al futuro, alle nuove tecnologie, al digitale, al rapporto tra musica e immagine». Le progressive riforme, la convivenza del vecchio ordinamento e del nuovo, i tagli e le latitanze economiche dei governi complicano le cose, ma non abbastanza da escludere i nuovi progetti, come il master in clarinetto basso, le collaborazioni con la Scala, con i musei, con le università, didattica musicale, neuroscienze e dislessia. Non abbastanza da scoraggiare l’afflusso continuo di studenti dall’estero, dove non tramonta la fama del canto e dell’opera italiana. Non abbastanza da affievolire l’impegno sulla produzione di concerti che mettano in mostra i nuovi talenti.
I violini di don Colmegna. Non abbastanza da indebolire l’entusiasmo del presidente Arnoldo Mosca Mondadori, che nell’ultimo triennio ha dato un impulso decisivo alle iniziative sociali. A proposito di coesistenza tra una grande tradizione e la proiezione al futuro: in collaborazione con la Casa della Carità di don Colmegna, ecco i corsi di violino e fisarmonica per bambini e ragazzi rom (quelli che hanno subito gli sgomberi del Comune), da cui la nascita di un’orchestra di 24 elementi che ha debuttato nel novembre scorso riempiendo di pubblico la Sala Verdi. Un’iniziativa aperta, adesso, alle altre etnie (africani, sudamericani, siriani, filippini…) in vista della nascita di un’Orchestra dei Popoli che crei solidarietà con le persone in condizioni difficili ma che verifichi anche il talento musicale: «Superare i pregiudizi, al di là delle fazioni politiche, attraverso le emozioni che provengono dalla musica», è il proposito di Mondadori. E poi ci sono gli accordi con i detenuti del carcere di Opera per la costruzione dei violini e con il carcere di Bollate per la manutenzione informatica. E ancora il grande filone della musica sacra, della sua diffusione e del suo studio, perseguito con il conservatorio di Bologna.
Disciplina e passione. Rigore è ancora la parola chiave, se declinata con la passione. «Il rigore è preteso non dalla scuola ma dalla musica stessa», dice Possio, «gli studenti sanno che le possibilità di lavoro non sono molte, eppure le domande d’ammissione crescono anno dopo anno». Le domande per il canto possono anche sfiorare le due centinaia, mentre i posti disponibili sono solo quindici. Qui le lezioni individuali non sono l’eccezione e il vincolo di fiducia tra allievo e Maestro (con la maiuscola) è tutto. «I migliori studenti di oggi», osserva la direttrice, «non hanno nulla da invidiare a quelli del passato, ciò che è cambiato è il rapporto della musica con la società: c’è meno attenzione, le orchestre a Milano e in Italia sono diminuite considerevolmente; ma se da tutto il mondo vengono in Italia per studiare la musica, il melodramma, il teatro, la composizione significa che si tratta di attività che potrebbero rappresentare una ricchezza. Purtroppo gli unici a non accorgersene sono i nostri governanti».
E in questo caso anche le strutture fanno invidia ovunque. La Biblioteca conserva la più ampia raccolta di musica a stampa pubblicata in Italia negli ultimi due secoli, fondi di manoscritti e di autografi antichi (il fondo Noseda è tra i più preziosi), qualche centinaio di testate di periodici.
I martedì in sala Puccini. La Sala Verdi (1.580 posti) fu costruita nel 1908 sull’area del primo chiostro, distrutta dai bombardamenti del ’43 e ricostruita nel dopoguerra; acustica ritenuta tra le migliori d’Europa. La Sala Puccini dai velluti rossi fu inaugurata nel 1952 ed è più raccolta (450 posti): in un pomeriggio di un martedì qualunque si può assistere alla prova d’orchestra di una “Sonata di viole” di Stradella. Violini, viola, violoncelli, contrabbassi: «Battuta 9 del ritornello… Ci siamo?». Il maestro Estevan Velardi sembra piuttosto severo. Probabilmente lo è.
Lungo il corridoio del primo piano, che un tempo dava accesso alle celle del monastero, ora ci sono le aule. Piccole e grandi. Dagli oblò delle porte si possono vedere ragazze che si esercitano con il violino obbedendo ai suggerimenti di Maria Caterina Carlini: a tredici anni puoi frequentare la terza media e insieme seguire violino come materia principale, solfeggio e coro come complementari, senza trascurare il pianoforte (obbligatorio per tutti), lo studio della storia della musica e l’esercizio con altri strumentisti. C’è poco da scherzare. Da un’altra stanza arriva una voce baritonale, mentre Ariela, finita la lezione di arpa, raggiunge di corsa l’aula di teoria portandosi dietro il suo monopattino. La lezione di Insieme fiati è per studenti di fascia più alta: diciamo al sesto-settimo anno di frequenza. «Qui si tratta di conoscere le differenze dei vari strumenti, di acquisire una consapevolezza interpretativa ed espressiva, di esercitarsi su un repertorio molto ampio che va dal Settecento al Novecento», dice il maestro Alessandro Bombonati. Da qui usciranno i professionisti della musica da camera: «Sono allievi molto motivati e strutturati, la selezione è già avvenuta perché gli altri si sono già autoeliminati prima». Non parlate di sacrificio, qua dentro: passione e costanza vanno a braccetto. «C’è una prospettiva etica nel lavoro e nello studio, noi creiamo delle coscienze, una visione della realtà e della vita». Bisogna crederci. E Bombonati ha l’aria di crederci, nell’insegnamento o forse, meglio, nel magistero. Chissà se gli altri 230 insegnanti la pensano allo stesso modo. Mentre lui parla di vocazione e di trasmissione di valori e di competenze, i suoi allievi non smettono di provare e riprovare.
La lavagna appesa al muro. L’aula di jazz è ovviamente la più chiassosa: un contrabbasso, una batteria, un pianoforte, due sax e… un violino (ma sembra una tromba o un altro sax) suonato dall’unica donna della band. Milestones, la sola prova discografica in studio del sestetto di Miles Davis, risale al 1958 ed è un enorme piacere ascoltarla. Una lavagna appesa al muro ha scarabocchi incomprensibili, puri geroglifici per un profano. Bisogna spostarsi di qualche metro, sempre restando al primo piano, per accedere al miniteatro che viene utilizzato per le lezioni di Arte scenica tenute da Sonia Gandis ai cantanti lirici: un melting pot. Sono ragazzi e ragazze di nazionalità varie, oltre all’Italia, Corea, Vietnam, Cina, Giappone, Svizzera, Ucraina… E c’è anche, tra le braccia di una giovane allieva sorridente, un bambino di un paio d’anni. L’insegnante stava spiegando come «preparare il personaggio dietro le quinte»: non solo una faccenda di concentrazione. «Il cantante lirico deve apprendere specifiche modalità gestuali, la preparazione teatrale applicata al canto ha delle sue peculiarità, tenendo presente che il cantante lirico è soprattutto un attore». Non si finisce mai di imparare. Una ragazza dai lunghi capelli rossi sta provando una tromba, mentre nella classe di Teoria il maestro Giovanni Salvemini, che ha un’aria affabile e simpatica, spiega a cinque ragazzini di dieci e undici anni il ritmo e l’armonia: «Il concetto di modalità e tonalità dai greci fino al Settecento, il diatonico e il cromatico… Tutte cose che vanno poi applicate e affinate con la pratica musicale». Ariela è qui e sorride. I baffi a punta di Guarinoni, il busto di Puccini (senza sigaretta), i ritratti di Rossini, Bellini, Donizetti la guardano con severità. Ma neanche troppa.