Daniela Mattalia; Susannah Cahalan, Panorama 28/2/2013, 28 febbraio 2013
UNA MALATTIA MI HA TRASFORMATO NEL DEMONIO
All’età di 24 anni, nel giro di un mese, a Susannah Cahalan furono fatte quattro diverse diagnosi: psicotica, depressa bipolare, epilettica, schizofrenica. I medici avevano pensato che soffrisse di sindrome da astinenza da alcol, di eccessivo stress, di tumore cerebrale. I suoi sintomi, del resto, erano un allucinante rompicapo: febbre, emicranie lancinanti, crisi di pianto, fotofobia, attacchi epilettici, paranoia, allucinazioni, aggressività, esperienze extracorporee, perdita della parola, catatonia. Intorno al suo letto, in un reparto del prestigioso NYU Langone medical center di Manhattan, si sono alternati psichiatri e neurologi. Nessuno capiva cosa stesse succedendo al cervello di questa giovane e bellissima donna. «Mi stavo trasformando in una specie di animale» ricorda. «Grugnivo, facevo movimenti anomali, tiravo calci». Il suo destino sembrava quello di finire in un reparto di malattie mentali. Oggi Susannah, giornalista del New York Post, ha 28 anni ed è guarita (dopo 7 mesi, anche se il recupero completo è avvenuto in un paio d’anni). E sul suo viaggio all’inferno ha scritto un libro, Brain on fire (Penguin books). È guarita perché a un certo punto è entrato in scena un neurologo di origini siriane, Souhel Najjar. Chiamato per un consulto, ha avuto un’intuizione: a rubarle la mente era una rara malattia neurologica, l’encefalite autoimmune anti-Nmda. In parole semplici, un’infiammazione in cui gli anticorpi del suo stesso organismo stavano attaccando il cervello. Malattia terribile, ma curabile. Prima di lei, nel mondo, erano stati registrati solo 216 episodi di encefalite autoimmune anti-Nmda. Ora i casi segnalati sono qualche migliaio, però la malattia resta in gran parte misteriosa e sottodiagnosticata. «Io sono fortunata: mi sono trovata nel posto giusto al momento giusto. Ospedale di New York, dottor Najjar. Altrove cosa sarebbe successo di me?» si chiede Susannah. «L’encefalite autoimmune ha sintomi simili alla depressione bipolare, alla schizofrenia, all’autismo. In certi paesi chi ne soffre viene creduto preda di una possessione demoniaca. Ancora oggi il mio ragazzo, Stephen, non può guardare il film L’esorcista perche gli ricorda com’ero quando stavo male. Ma, allora, quante persone non ricevono la diagnosi giusta? Quanti presunti malati di mente soffrono di un’infiammazione cerebrale che si può superare e non vengono mai curati?». Prima di scrivere il libro Susannah ha raccontato la sua storia sul Post. «Quell’articolo ha cambiato la mia vita e quella del dottor Najjar» dice. Molte persone le hanno scritto, chiedendole informazioni o consigli per la madre, il figlio, il marito con gli stessi sintomi. E Souhel Najjar è stato definito dal New York Times Magazine «il miglior neurologo degli Stati Uniti». Ecco tre estratti del libro di Susannah Cahalan.
di Susannah Cahalan
Quella sera sono entrata in sala e davanti alla mamma e ad Allen (il compagno della madre, ndr) ho annunciato: «Ho capito, si tratta di Stephen, mi fa troppa pressione e io sono ancora troppo giovane». Mamma e Allen hanno annuito, comprensivi. Sono uscita dalla stanza, poi, appena oltre la soglia, mi è venuta in mente un’altra possibilità. Sono tornata sui miei passi e ho aggiunto: «In realtà il problema è il Post: non mi trovo bene lì, mi stanno facendo impazzire». Loro hanno annuito di nuovo. Mi sono girata per andarmene ma ho cambiato idea. «No, è il mio stile di vita il problema, New York non va bene. Farei meglio a tornarmene a St Louis o nel Vermont, o in qualsiasi altro posto tranquillo». Loro continuavano ad annuire, però nei loro sguardi scorgevo una preoccupazione crescente. Mi sono allontanata ancora, camminando velocemente dalla sala alla cucina e poi di nuovo indietro. Ormai lo sapevo per certo, ormai l’avevo capito. Ogni cosa acquistava un senso...
Il tappeto orientale mi graffia il viso, gocce di sangue fuse nel tessuto. Poi le urla della mamma: ero svenuta e cadendo mi ero morsa la lingua. Giacevo sul pavimento in preda a convulsioni incontrollate, il mio corpo si muoveva a scatti, come un pesce fuor d’acqua. Allen è corso verso di me e mi ha infilato un dito in bocca, ma io, vinta da uno spasmo, l’ho morso forte, aggiungendo il suo sangue al mio. Sono rinvenuta qualche minuto dopo. La mamma parlava al telefono con il dottor Bailey, la voce agitata, in spasmodica attesa. Sabato mi avrebbe ricevuto per misurarmi l’attività elettrica cerebrale con un elettroencefalogramma.
Mi hanno fatto la seconda puntura lombare il 9 aprile. Ormai ero in ospedale da 18 giorni e non solo non ero vicina a una possibile cura, ma sembrava che le mie condizioni peggiorassero di giorno in giorno. Stephen aveva notato che alcune mie abitudini, come quella di muovere costantemente la mandibola oppure i movimenti rigidi delle braccia e lo sguardo fisso, erano diventate più frequenti.
Video Eeg, 8 aprile, ore 22.30. La tv trasmette un reality show. Stephen guarda il programma seduto accanto a me. Io dormo adagiata su un fianco, rivolta verso di lui. All’improvviso mi metto seduta e inizio a inspirare rapidamente senza espirare. Stephen preme il pulsante d’allarme. Si sporge sopra di me e leggo l’orrore nei suoi occhi. Arriva un’infermiera. Stephen cerca di spiegarle quello che è successo, mimando l’atto di soffocamento per mostrarle come avevo smesso di respirare. Mentre parlano distendo nuovamente le braccia, ma le mie mani sono piegate in giù sul polso, come le zampe di un dinosauro T-rex. Stephen me le rimette a posto e mi massaggia le spalle, ma le mie mani tornano subito alla posizione di prima, a formare un angolo di 45 gradi sul polso, quasi fossero sostenute da fili. Comincio a scuoterle, su e giù, su e giù. Poi le appoggio di nuovo sul viso e rimango immobile finché non entra la neurologa di guardia.
Di nuovo Stephen prova a spiegare quello che è successo, afferrando in una stretta il suo stesso braccio e digrignando i denti, ma poi scoppia a piangere, troppo sconvolto per continuare. Accanto a me c’è un orsacchiotto, lo spingo a terra e comincio a scuotere goffamente le braccia, colpendo l’aria, quasi cercassi di scacciare un fantasma, però queste si muovono così rigidamente che sembrano quelle di una Barbie impazzita.
La dottoressa mi rivolge qualche domanda, ma le sue parole mi arrivano troppo ovattate perché le possa capire; io non rispondo, continuo invece a fissare il vuoto davanti a me.
Dopo aver escluso le possibilità di un disturbo schizoaffettivo, una psicosi post-ictale o un’encefalite virale, la scoperta di un’alta percentuale di globuli bianchi nella puntura lombare è stata un’illuminazione per il dottor Najjar, che è giunto a questa conclusione: l’infiammazione è quasi certamente il risultato di una reazione autoimmunitaria del mio organismo. Ma che tipo di patologia autoimmune? ... Inoltre c’erano altri interrogativi: quanto era seria l’infiammazione? Il mio cervello poteva essere recuperato? L’unico modo per saperlo era con una biopsia cerebrale, ma il dottore non era sicuro che i miei genitori avrebbero accettato di farmi sottoporre a un tale intervento. A nessuno piaceva il suono delle parole biopsia cerebrale, che consiste nell’estrarre una piccola parte di cervello da analizzare, ma più a lungo si aspettava, più diminuivano le possibilità che avevo di tornare a essere quella di prima. Mentre rimuginava su queste considerazioni, il dottore camminava avanti e indietro nella stanza, sovrappensiero.
Dopo un po’ si è seduto sul letto accanto a me e, rivolgendosi ai miei genitori, ha osservato: «Il suo cervello è in fiamme». Poi ha preso le mie piccole mani tra le sue, così grandi, e si è sporto verso di me. «Ho intenzione di fare tutto quello che è in mio potere per aiutarti. Ti prometto che io ci sarò sempre per te».
Il dottar Najjar ha visto le lacrime formarsi agli angoli dei miei occhi. Mi sono messa a sedere e l’ho abbracciato. Per lui è stato un momento importante della mia storia, perché percepiva che ero ancora lì, da qualche parte. Ma è durato poco. Subito dopo, stremata, le forze mi sono venute meno. Però lui sapeva che c’ero ancora e non mi avrebbe abbandonata. Ha fatto segno ai miei genitori di seguirlo fuori dalla stanza. «Il suo cervello è in fiamme» ha ripetuto. Loro annuivano, gli occhi sbarrati. «La sua mente è attaccata dal suo stesso corpo».