Giovanni Bianconi, Corriere della Sera 01/03/2013, 1 marzo 2013
DA GOMORRA ALLA VERSILIA I CASALESI A CACCIA DI IMPRESE
Da Gomorra alla Versilia, per coltivare il racket e allungare le mani su imprese e locali notturni. E da lì all’Abruzzo, per infilarsi in qualche appalto della ricostruzione post-terremoto. Che gli affari della criminalità organizzata si espandano oltre le terre d’origine dei clan è ormai acclarato da numerose inchieste e altrettanti processi. Dopo la mafia in Liguria e nel nord-est, la ’ndrangheta in Lombardia, Piemonte ed Emilia, ecco i camorristi in Toscana. Sbarcati con un’intenzione tutta particolare: estorsioni agli imprenditori campani trasferitisi in quella parte d’Italia, soprattutto nella zona intorno a Viareggio, e poi utilizzarli per individuarne altri da taglieggiare, e convincerli a pagare il «pizzo».
È quel che emerge dall’ultima indagine della Procura di Napoli e degli investigatori del Servizio centrale operativo della polizia, sfociata ieri nell’arresto di una ventina di persone tra cui molte accusate anche di associazione mafiosa e concorso esterno rispetto al «sodalizio chiamato clan dei casalesi». In particolare il gruppo di Francesco Schiavone, detto Sandokan, e dei suoi alleati. Gli atti del procedimento ci ricordano che ormai non ci sono più territori che possano ritenersi (e tantomeno proclamarsi) immuni dall’infiltrazione criminale. Che si presenta sotto le forme più subdole e insidiose; in questo caso una normale attività commerciale svelatasi poi di supporto ai boss. Alcuni dei quali, dalla prigione, continuano a dare ordini e incassare denaro.
Tra gli indagati finiti in carcere ce n’è uno definito, nel capo d’accusa, «imprenditore a disposizione del sodalizio con la funzione di veicolare le richieste di tangenti provenienti dai vertici campani agli imprenditori toscani», nonché di «ospitare e assistere gli affiliati casalesi nel territorio toscano garantendo anche un impiego fittizio» quando serviva a evitare la galera, e «ricercare imprese disponibili a partecipare a gare per l’esecuzione di lavori per conto del sodalizio». Ferma restando la necessità di provare questi reati nel processo, la prosa giudiziaria riassume chiaramente il virus che si può nascondere dietro un’iniziativa economica apparentemente banale.
Quello stesso imprenditore è stato intercettato dalla polizia il 27 aprile 2009, venti giorni dopo il terremoto in Abruzzo, mentre chiedeva a un’altra persona arrestata ieri se era interessato alla costruzione di cento appartamenti a L’Aquila. In caso positivo avrebbe dovuto contattare un avvocato che seguiva la vicenda, giacché l’operazione andava fatta attraverso ditte di comodo non meridionali, per non destare sospetti. La voce dell’interlocutore è stato registrata anche in un’altra intercettazione, mentre parlava di armi: «Tengo una quindici botte, due Smith e Wesson, una a tamburo e una normale, poi tengo la 302, la Magnum, il fucile sovrapposto e tengo una lupara. Ora che vuoi tu da me?».
Giovanni Bianconi