Aldo Cazzullo, Corriere della Sera 01/03/2013, 1 marzo 2013
«ORA SONO SOLO UN PELLEGRINO». L’ADDIO DEL PAPA UMILE
«Buonanotte» alle 6 meno 20 del pomeriggio poteva dirlo solo un tedesco; ma un commiato così graziosamente umile poteva appartenere solo a Papa Ratzinger.
Da «semplice e umile lavoratore nella vigna del Signore» a «pellegrino che inizia l’ultima tappa del suo pellegrinaggio su questa terra». Tra le prime e le ultime parole da Pontefice sono passati otto anni tra i più tribolati nella storia recente della Chiesa, in cui però neppure i critici hanno potuto sostenere che la sua intelligenza fosse divenuta superbia intellettuale. «La tua umiltà ti ha reso grande», come dice la scritta mostrata da una religiosa sotto il balcone di Castel Gandolfo, da dove, il 25 settembre 2006, sotto una pioggia battente il Papa aveva chiesto scusa ai musulmani «se una mia citazione di un testo antico può aver offeso la vostra sensibilità». Dopo il Papa buono, il Papa tormentato e Giovanni Paolo II il Grande (come lo definì Sodano), esce di scena il Papa umile, in un giorno contraddistinto da simboli medievali e dai segni della modernità, con la tecnologia più avanzata che irrompe nella ritualità secolare della sede vacante.
L’anello piscatorio affidato al camerlengo Bertone perché lo distrugga, e l’ultimo messaggio del primo Papa a usare Twitter: «Grazie per il vostro amore e il vostro sostegno; possiate sperimentare sempre la gioia di mettere Cristo al centro della vostra vita». L’apposizione dei sigilli all’Appartamento e all’ascensore che sale alla terza loggia, sempre per mano di Bertone, e il volo in elicottero su Roma: un’immagine cinematografica, che evoca l’inizio della Dolce Vita e l’apoteosi di Angeli e Demoni; tanto che un’inviata americana — una dei 3.641 reporter accreditati — ha chiesto a padre Lombardi se il Pontefice avrebbe pilotato l’elicottero di persona («guardi che è un mite teologo» è stata la risposta).
Un giorno che poteva essere grandioso e terribile — la vacatio, il «momento di terrore», l’abdicazione pubblica in un clima di intrighi (è di ieri la rivelazione sulla rete di controllo in Vaticano voluta dal segretario di Stato) — è stato vissuto da Benedetto XVI con semplicità quasi monacale, come la vita che lo attende: sia nel saluto ai cardinali, chiamati a designare il successore senza la guida dell’uomo cui riconoscevano un’indiscutibile primazia intellettuale, sia nella scelta delle cose per il trasloco.
I due gattini di ceramica sì, le immagini sacre no. Il pianoforte sì, i servizi da tavola no. Il criterio scelto dal Papa è portare via con sé i doni ricevuti e gli oggetti personali, ma lasciare nell’Appartamento sigillato tutto quanto compete alla funzione del Pontefice. Così ha portato a Castel Gandolfo gli appunti su cui ha lavorato per la stesura della trilogia su Gesù, che considera il compimento della sua vita intellettuale, oltre alla lettera arrivata ieri dalla Cina e firmata da vescovi, sacerdoti e suore che lo ringraziano «per quanto ha fatto e detto per il popolo cinese nei giorni del terremoto e delle nostre difficili prove»; ma ha lasciato in cassaforte, a disposizione del successore, la relazione segreta sullo scandalo delle carte trafugate.
Anche nel giorno del commiato il Papa vuole mantenere le sue abitudini — a cominciare dalla messa, celebrata alle 7 nella cappella privata dell’Appartamento, e dalla lettura della rassegna stampa, in particolare i giornali italiani, americani, tedeschi — e seguire il breviario. Deve rinunciare solo alla passeggiata nei giardini, dove tornerà tra due mesi, quando finiranno i restauri — iniziati nella massima discrezione fin da ottobre — del monastero sotto le mura leonine che lo accoglierà. Dopo le lodi e l’ora media, ma prima dell’Angelus, saluta uno per uno i 144 cardinali arrivati a Roma. Qualcuno gli ha portato un libro o un piccolo dono. Tutti sono commossi, ma l’unico in lacrime — oltre a padre Georg — è Marc Ouellet, prefetto della congregazione per i vescovi, considerato con Angelo Scola il successore naturale. Particolarmente affettuoso il congedo da Bergoglio, che gli fu «rivale» nel conclave del 2005. Qui, nella Sala Clementina, Benedetto XVI ha un altro di quei gesti di umiltà che hanno scandito il Pontificato, assicurando al «futuro Papa che è qui tra voi la mia incondizionata reverenza ed obbedienza», sottomettendosi a un uomo che ancora non conosce ma di cui già riconosce l’autorità; e colpisce i cardinali che a farlo sia, per la prima volta, un Pontefice ancora seduto in trono, con la mozzetta e la stola rosse, nel pieno dei poteri cui di propria volontà rinuncia. Ratzinger ripete le parole dette il giorno prima ai fedeli in piazza San Pietro: «La Chiesa è un corpo vivo. È nel mondo, ma non è del mondo». E, con una delle sue espressioni incantevoli, aggiunge che «la Chiesa vive, cresce e si risveglia nelle anime, che come la Vergine Maria offrono a Dio la propria carne e diventano capaci di generare Cristo oggi nel mondo»; per cui «Cristo continua a camminare attraverso i tempi e tutti i luoghi». Il collegio cardinalizio è come un’orchestra, «dove le diversità, espressione della Chiesa universale, concorrono sempre alla superiore e concorde armonia».
Turbati, molti cardinali all’uscita vanno in basilica a pregare sulla tomba di Giovanni Paolo II e a sfogare rimpianti, forse rimorsi. Poi, più sereni, si raccontano l’un l’altro episodi legati al loro rapporto con Ratzinger, l’arcivescovo Sepe rievoca la visita a Napoli con il Vesuvio imbiancato a ottobre, «miracolo ancora più raro dello scioglimento del sangue di San Gennaro», gli altri sorridono. Il calendario per loro si fa serrato: prima del Papa ha parlato il decano Angelo Sodano, ad audio spento, per avvertire che già stamattina alle 9 e mezza è convocata una riunione informale, in vista delle congregazioni preparatorie del conclave, che si aprono lunedì.
Tutto questo non riguarda più Benedetto XVI. Alle 17, dopo aver detto il rosario e i vespri, il Papa dimissionario saluta nel cortile di San Damaso Bertone e i collaboratori più stretti, tra cui l’autista Pietro, che baciandogli la mano scoppia in lacrime. Poi sale sulla Mercedes nera che passa accanto alla Domus Sanctae Marthae — dove dormiranno i cardinali durante il conclave — e attraverso i giardini lo conduce all’eliporto. Qui lo attende Sodano, per indicargli lo striscione con lo stesso augurio in tedesco che gli ha rivolto al mattino: «Vergelt’s Gott», che Dio la ricompensi. Il Papa stringe la mano ai gendarmi, si siede di fronte a padre Georg e all’altro segretario padre Alfred, si china su se stesso mentre le pale cominciano a girare e le campane di San Pietro battono a distesa, come per coprire il rumore del velivolo che porta via il Papa.
Alle 17 e 7 l’elicottero decolla, sorvola il Campidoglio accompagnato dal suono di un’altra campana, la Patarina, sfiora i fori, il Colosseo, le statue degli apostoli sulla facciata di San Giovanni, i pini marittimi dell’Appia, Ciampino dove Benedetto XVI è atterrato al ritorno dei suoi 24 viaggi internazionali, si lascia alle spalle l’aereo di John Kerry, primo cattolico a divenire segretario di Stato americano (la Albright si convertì alla Chiesa episcopale con il matrimonio) che però non ha fatto in tempo a incontrare il Papa, volteggia sopra i Castelli romani e alle 17 e 23 atterra a Castel Gandolfo.
Qui, alle 17 e 38, Joseph Ratzinger pronuncia le ultime, semplici parole da Papa — «simpatia», «amicizia», «affetto» —, offre ai fedeli «il mio cuore, il mio amore, la mia preghiera, la mia riflessione, le mie forze interiori», e con oltre due ore di anticipo dà l’annuncio, quasi una liberazione: «Non sono più il Pontefice Sommo della Chiesa cattolica». Poi si inciampa con la benedizione cominciando in italiano, proseguendo in latino per tornare poi alla nostra lingua, dice «andiamo avanti», dà la buonanotte, ringrazia tutti e si ritira per la cena e la compieta. Ora tace anche l’account Twitter «Pontifex», a disposizione del successore, se vorrà. Poi, mentre alle 8 della sera il portone di Castel Gandolfo si chiude e le guardie svizzere depongono l’alabarda prima di tornare in Vaticano, il Papa si è immedesimato nel Demetrio di Plutarco; che alla fine del suo regno «si spoglia della tunica regale, ne indossa una povera e dimessa, e se ne va».
Aldo Cazzullo