Ettore Livini, la Repubblica 1/3/2013, 1 marzo 2013
PISTE DESERTE E ASSUNZIONI A RAFFICA COSÌ IL BOOM DEI MINI-AEROPORTI È DIVENTATO L’ULTIMA SPRECOPOLI
POMPIERI PAGATI PER ASPETTARE AEREI CHE NON ARRIVANO MAI. BARISTI, UOMINI RADAR E POLIZIOTTI DI FRONTIERA IMPEGNATI 24 ORE SU 24 — quasi sempre a spese dei contribuenti — a girare i pollici in attesa di accudire 21 passeggeri al giorno. Centinaia di milioni di denaro pubblico spesi per faraonici terminal dove non transita nessuno. La sprecopoli dei mini-aeroporti italiani, una trentina di scali- bonsai cresciuti all’ombra della politica e dei campanili, ha tinto di rosso i cieli tricolori.
Abbiamo costruito in allegra anarchia piste e torri di controllo in ogni angolo del Belpaese, spesso a pochi chilometri l’uno dall’altro. E oggi i nodi stanno arrivando al pettine: dei 101 aeroporti civili nazionali solo pochi (in genere i big) riescono a far quadrare i conti. Gli altri sono cattedrali nel deserto: le sale d’attesa restano vuote, ai check-in ci sono più addetti che clienti. E il conto da pagare è altissimo: gli enti locali si sono caricati sulle spalle oltre 300 milioni di debiti per far decollare i loro sogni aeronautici. Peccato che solo negli ultimi tre anni i gioiellini in scala ridotta abbiano bruciato 150 milioni di perdite. E oggi per molti di loro (da Forlì a Parma, da Bolzano a Foggia) il rischio di chiusura è altissimo. Ma quanti e quali sono gli scali a rischio chiusura? Dove sono stati buttati tutti questi soldi? Cosa (e se) cambierà con il piano di riordino del sistema approvato in zona Cesarini dal governo Monti?
GLI SCALI FANTASMA
Cosa hanno in comune l’aeroporto di Bolzano e quello di Brescia? Una cosa semplice. Si apre il loro sito, si clicca su “Partenze e arrivi di oggi” e il risultato è lo stesso: una pagina desolatamente vuota. In entrambi gli scali operano la Finanza e i vigili del fuoco. Ma causa crisi (in Alto Adige Air Alps ha appena sospeso la rotta Bolzano-Roma) non si vola. Nello scalo lombardo — ormai votato al cargo — sono passati a novembre 148 passeggeri, cinque al giorno. A Bolzano — prima dell’addio del volo per la capitale — poco più di 3mila. Briciole, malgrado i milioni di denaro pubblico spesi per tenerli aperti: a Montichiari ben 160 milioni da inizio millennio; a Bolzano 45, tra cui 6 per il nuovo terminal inaugurato a fine 2011 e oggi in sostanza inutile. Più altri 27 appena stanziati dalla Provincia.
Casi isolati? Tutt’altro. Non molto meglio sta Salerno,
candidata a diventare il secondo scalo campano come supporto di Napoli Capodichino. L’aeroporto (costato finora una trentina di milioni) ha già aperto e chiuso varie volte, mantenendo sempre in organico qualche decina di dipendenti. Pochi mesi fa con Skybridge ha cercato il rilancio grazie a un collegamento con Malpensa. Sul primo volo, dice la vulgata, c’era un solo passeggero e l’affare è saltato. «Con quello che spendiamo, pagheremmo meno a portare la gente a Milano in Limousine», ha scherzato (ma non troppo) Gianni Iuliano, membro del cda del “Costa d’Amalfi”. Risultato, il solito: la pista dove nel 1962 — in piena Dolce Vita — è atterrata la famiglia Kennedy è semideserta. E cliccando su “Partenze e arrivi di oggi” appare solo uno sconfortante “disponibile a breve”.
Qualche segnale di vita in più c’è alla voce “Voli in tempo reale” di Forlì. In arrivo ci sono aerei da Timisoara, Cluji, Sofia e Bucarest. Alla home page, però, la musica è un’altra: “For sale now, great opportunity” è la scritta — stile televendita — che campeggia a centro schermo. Il motivo? Il solito: malgrado i 40 milioni spesi in sei anni dalla provincia per tenere aperti i check-in, il “Ridolfi” è sull’orlo del crac. La Seaf, la società di gestione, è finita in liquidazione e l’idea più brillante per rilanciarla è venuta al direttore Unindustria Massimo Balzani che — nel clima revisionista che va per la maggiore — ha proposto di battezzare l’aeroporto “Benito Mussolini” per «dargli maggiore visibilità».
LA POLITICA IN PISTA
CHIMERA LOW-COST
Quanto pesa la zavorra della politica sul flop degli scali-bonsai? E i privati possono fare meglio del pubblico? Risposta alla domanda numero uno: molto. I campanilismi sono il virus che ha messo in ginocchio il nostro sistema aeroportuale. Uno scalo nuovo di pacca — oltre a gratificare l’orgoglio territoriale — porta in dote poltrone in cda, consulenze (Rimini ha speso 271mila euro per censire l’avifauna in pista) e assunzioni. Un boccone troppo ghiotto per essere snobbato dalla casta. In Toscana si scannano da tempo tre aeroporti a pochi passi l’uno dall’altro, Firenze, Pisa (che negli ultimi giorni hanno provato a far pace) e Siena. Quello della città del Palio perdeva nel 2011 più di 1,2 euro per ogni euro che incassava ed è finito in concordato preventivo lasciando come strascico giudiziario un’inchiesta in cui è indagato l’ex presidente del Monte Paschi Giuseppe Mussari.
Massimo D’Alema, al tempo ministro degli Esteri, ha battezzato nel 2007 il “Pio La Torre” di Comiso. «Sarà il ponte tra Europa e paesi arabi», ha detto allora. Non stupisce che i rapporti tra le due sponde del Mediterraneo siano ancora tesi: l’aereo dell’ex ministro degli Esteri è l’unico atterrato da allora a Comiso. Dove da anni pompieri e dipendenti aspettano il de-
collo ufficiale che (forse) arriverà nel 2013. Nell’attesa lo Stato e Bruxelles — che minaccia da tempo di chiedere indietro i suoi soldi — hanno già sborsato 45 milioni.
IL VOLO “A SUA INSAPUTA”
Siamo alle solite. Sotto i campanili d’Italia i consensi elettorali, spesso, si misurano in soldi pubblici. Così il “Gino Lisa” di Foggia — due passi dai rivali di Brindisi e Bari e appena 10 passeggeri al giorno a novembre 2012 — ha appena incassato la promessa di altri 15 milioni da Roma e dalla regione Puglia per allungare la pista. E Perugia, grazie a 45 milioni piovuti dal cielo per il 150esimo dell’Unità d’Italia (e 1,1 milioni spesi per attirare le low-cost) è riuscita a rinnovare un aeroporto che nel 2011 di milioni ne fatturava 2.
Resta mitico però — sul fronte del groviglio armonioso aeroporti-politica — il caso del Villanova d’Albenga, lo scalo di riferimento (come ovvio «a sua insaputa ») di Claudio Scajola. Le sue fortune sono lo specchio di quelle dell’ex ministro Pdl, nativo di Imperia, pochi passi da qui. Quando è andato al governo per la prima volta, Alitalia — in un sussulto di attivismo — ha lanciato l’indispensabile rotta Albenga-Fiumicino. Salvo chiuderla a stretto giro di posta quando Scajola è stato costretto alle dimissioni per il caso Biagi e riaprirla (grazie a 1 milione di aiuti del governo Berlusconi) non appena il politico ligure è tornato in auge. Il volo più affollato su questa tratta — accusa una interrogazione parlamentare — aveva a bordo 18 passeggeri. «Io non ne so nulla, decollavo da Genova », ha assicurato Scajola. Oggi però, orfano del supersponsor, il Villanova fattura 800mila euro all’anno. E poche settimane fa — della serie “io non c’entro niente” — l’ex ministro è sceso in campo per chiedere la cessione ai privati una quota di questo scalo —
ipse dixit
— «qualitativamente di primissimo livello». Il cui unico difetto, carta geografica alla mano, è di essere a 90 chilometri di comoda autostrada dall’aeroporto di Genova.
Il boom del traffico low cost è l’unico paracadute — purtroppo non gratuito — per salvare dal crac gli scali- fantasma. Ma come si fa ad attirare questi vettori? Le regole d’ingaggio con Ryanair & C. sono semplici: l’ente locale sovvenziona il loro sbarco in loco stanziando quelle che pudicamente vengono definite “spese di marketing”. Scusa ufficiale: i volumi di traffico garantiti fanno da volano all’economia del territorio. La compagnia incassa e garantisce un tot di voli destinati — in teoria — a ribaltare le fortune di questi scali.
I soldi in ballo non sono pochi. E i rischi di choc in
caso di tradimento sono altissimi. Prendiamo l’aeroporto di Verona “Catullo”. I suoi vertici, alle prese con la concorrenza di Bergamo e Milano a ovest e con Treviso e Venezia a est, hanno deciso di sparigliare le carte con Ryanair. Come? Garantendole per cinque anni 24 euro di bonus (in tutto 6,7 milioni nel 2011 su 36 di ricavi) per ogni passeggero portato nella città di Giulietta e Romeo. Non c’è voluto molto per capire che era come mettersi il cappio al collo. E quando lo scalo veneto ha provato a rinegoziare l’intesa, la società irlandese se n’è andata dalla sera alla mattina cancellando 39 voli settimanali. Risultato: 26 milioni di perdite 2011, -28 per cento di passeggeri a novembre, cassa integrazione e la caccia disperata a soci disposti a mettere 75 milioni per tappare i buchi di bilancio. Quanto sono gli aeroporti low-cost dipendenti? Un bel po’. Trapani spende 6,2 milioni (pubblici) l’anno per “spese di marketing”, leggi soldi alla solita Ryanair. Ancona ne ha stanziati 2,5, Rimini 7 (cifra che in questo caso non è bastata a evitargli il concordato preventivo). Contribuendo tra l’altro, in un circolo vizioso, all’eutanasia di Wind Jet, Meridiana e Alitalia, messe in ginocchio dalla concorrenza sussidiata dei rivali a basso costo.
VENTI DI RIFORMA
Come mettere fine a questa giungla di sprechi? Ci sono privati interessati a gestire anche gli scali bonsai? Una cosa è certa: la selezione darwiniana è iniziata. I trasferimenti agli enti locali sono stati sforbiciati e la gabbia del patto di stabilità rischia di dare il colpo di grazia alle realtà in crisi. Parma è a caccia di investitori per non chiudere, come Cuneo, Ancona, Genova, Bologna, Forlì, Rimini, Verona. La spallata decisiva l’ha data però il governo Monti con il piano per il riordino di sistema. Basta sprechi, è la parola d’ordine. L’esecutivo ha scelto 31 aeroporti di Serie A cui saranno garantiti concessione e investimenti pubblici. Gli altri saranno lasciati nelle mani dei soci, leggi gli enti locali, e dovranno volare con le loro ali. Cosa succederà ai mini-scali di serie B? Per molti il rischio è la chiusura. A meno di un intervento di capitali privati. Ma il percorso, scommettono tutti, non sarà indolore. E con buona pace dell’Italia dei campanili, molti scali fantasma, questa volta, diventeranno fantasmi davvero.