Goffredo Pistelli, Italia Oggi 27/2/2013, 27 febbraio 2013
I 10 ERRORI COMMESSI DA BERSANI
Come ha fatto Pierluigi Bersani, segretario del Pd in carica, trionfatore alle primarie di coalizione, a sprecare l’occasione di portare «per la prima volta dal 1861» un uomo di sinistra al governo per via elettorale, come ha scritto lunedì lo storico Miguel Gotor, suo consigliere? Errori, non pochi, e commessi sin dalle primarie.
1) Gazebo a metà. Bersani le ha concesse al suo rivale naturale, Matteo Renzi, sindaco di Firenze, con gesto politico forte, malgrado molti, Rosy Bindi in primis, gli chiedessero di desistere e applicare lo Statuto che candidava lui in automatico. Un minuto dopo, però, l’apparato s’è mosso per scrivere regole ultrarestrittive mirate esclusivamente a limitarne l’apertura. Avesse accettato la sfida, avrebbe potuto misurare l’entità reale del seguito del Rottamatore e creare una candidatura in grado si fare cappotto alle politiche, evitando il ritorno di B. e la «salita» di Mario Monti.
2) Moderati? Giammai. Il segretario democrat ha sempre rifiutato di rivolgersi all’elettorato moderato in fuga dal Cavaliere e dalla Lega. Lui e i suoi hanno duramente polemizzato con Renzi che lo faceva nelle primarie. E nessun appello ai delusi del centrodestra è venuto negli ultimi giorni di campagna elettorale, malgrado il richiamo al «voto umile» da parte dello stesso sindaco. Bersani ha sempre pensato che i moderati dovessero essere condotti in maggioranza (dopo il voto) prima dall’Udc di Pierferdinando Casini poi, sfumata quell’intesa, dal Centro di Bruno Tabacci. Un pedaggio alla superiorità antropologica della sinistra.
3)Progressismo, progressismo, progressismo. Bersani s’è presentato agli Italiani con una coalizione fortemente identitaria che è sembrata spostare all’indietro le lancette della storia dello stesso Pd, col rischio di una evoluzione socialista. Una linea perfettamente incarnata dal responsabile economico del partito, Stefano Fassina.
4)Il partito delle tasse. Il Pd possibilista sulla patrimoniale ha lasciato spazio a quello, che, nell’ultimo periodo, si limitava a dire che «bastava l’Imu». É mancato però ogni accenno alla necessità di diminuire la pressione fiscale italiana, ormai a livelli record.
5) Spending «di più». Dalla scuola all’università, alla Pubblica amministrazione, il programma bersaniano ha fatto balenare la volontà di togliere lacci e lacciuoli alla spesa.
6) La solitudine dello staff. Bersani s’è chiuso in una torre d’avorio di pochi intimi: Vasco Errani, capo della campagna, Maurizio Migliavacca e Nico Stumpo, gli uomini dell’organizzazione e del partito, Miguel Gotor l’ideologo, Stefano Di Traglia e Chiara Geloni, i comunicatori. Un abbraccio che lo ha reso impermeabile ai suggerimenti che arrivavano anche dai vertici del partito.
7) Comunicazione a pendolo. Il segretario ha spiazzato spesso gli elettori, alternando un improbabile slang da Strapaese, pieno di metafore da Colli piacentini, a una narrazione, come direbbe Nichi Vendola, dura e aggressiva, verbalmente violenta piena di «vi sbrano», atomiche e «badilate». Una caratteristica che non si sposa con l’immagine del leader affidabile che si è voluta accreditare dal primo minuto.
8) Giovanilismo. Forse troppo prono ai suoi esperti di comunicazione, Bersani s’è prestato a operazioni che hanno finito per metterlo alla berlina anziché «umanizzarlo». Il segretario che, il toscano fra le labbra, dondola la testa a tempo di musica seguendo un video di Vasco Rossi, è stata l’immagine forse peggiore della campagna. Ha fatto il paio col tormentone del «Giaguaro da smacchiare»: degno di un cazzeggio adolescenziale, incomprensibile ai più, è finito persino nello striscione del comizio di chiusura all’Ambra Jovinelli.
9) Mps, coraggio mancato. Sulla vicenda della banca senese, Bersani ha abbracciato la linea dell’arroccamento, in cui si è data colpa al localismo, ai derivati «voluti dalla destra», agli scarsi controlli di Giulio Tremonti, enfatizzando il ruolo del sindaco uscente come innovatore. Linea che non ha pagato. Il Monte poteva diventare una straordinaria chance di rinnovamento, separandosi da alcune colpe storiche.
10) I vaffa sbagliati. Bersani ha scelto di attaccare Silvio Berlusconi sin dalle primarie, col risultato di alimentare quell’antiberlusconismo che fa bene solo a B., consolidando gli indecisi a favore del Cavaliere. Il M5s, a parte le iperboliche accuse di neofascismo all’inizio, è stato ignorato perché si riteneva che succhiasse consensi a destra. Il comico, a conti fatti, ha pescato invece a sinistra. Quando i grillini hanno riempito piazze enormi, si è cambiata strategia, anche con toni allarmistici, finendo però per scavare un fossato con la militanza di quel movimento e rendendo impossibile qualsiasi dialogo sucessivo.