Antonio Carlucci, l’Espresso 1/3/2013, 1 marzo 2013
Ridateci il sogno Colloquio Con Joseph Stiglitz– È cambiato tutto in America. È finita l’era della crescita senza fine, è chiusa la fase in cui la maggioranza vedeva migliorare il proprio tenore di vita, è storia del passato quel sentimento comune che era a portata di mano l’ingresso nella classe media, quella middle classe che nei libri, nei film era sinonimo di casa, auto e figli all’università
Ridateci il sogno Colloquio Con Joseph Stiglitz– È cambiato tutto in America. È finita l’era della crescita senza fine, è chiusa la fase in cui la maggioranza vedeva migliorare il proprio tenore di vita, è storia del passato quel sentimento comune che era a portata di mano l’ingresso nella classe media, quella middle classe che nei libri, nei film era sinonimo di casa, auto e figli all’università. Sta finendo persino l’epopea del Sogno Americano, la bandiera che per gli americani e per coloro che hanno lasciato patria e affetti per venire negli Stati Uniti sventolava dicendo "qui avrai l’opportunità che cerchi, basta che lavori sodo e sei un bravo cittadino". Parola di un premio Nobel, Joseph Stiglitz, economista e professore alla Columbia University che ha dedicato a questo tema il suo ultimo libro "Il prezzo della disuguaglianza" (in uscita con Einaudi) e che racconta come negli ultimi trent’anni gli Usa siano finiti tra i Paesi avanzati ai primi posti in tema di disuguaglianza. Come è potuto accadere? Colpa dell’egoismo, dell’individualismo sfrenato, di una cultura che, dice Stiglitz a "l’Espresso", ha visto prevalere «il singolo sulla comunità, il privato sul pubblico». Lei racconta che la superpotenza America è ai primi posti della classifica della disuguaglianza tra i Paesi sviluppati. Com’è potuto accadere e quando ha cominciato a manifestarsi questo fenomeno? «Gli anni Ottanta sono il punto di svolta. Fino ad allora, a partire dalla fine della seconda guerra mondiale, le disuguaglianze erano diminuite e non è un caso che quello sia stato il periodo di più rapida crescita economica negli Stati Uniti e in Europa. In America le disuguaglianze diminuivano sotto la spinta dell’aumento della produzione e della ricchezza nazionale, in molti Paesi dell’Europa anche grazie a un’azione di riforme mirate a ridurre le differenze sociali ed economiche. Essendosi invertito il trend, quando è arrivata la recessione del 2007 e 2008 si sono visti subito i risultati. Faccio un solo esempio: il reddito medio aggiornato all’inflazione è oggi inferiore a quello del 1968. Alla fine la fotografia è quella ormai resa chiara dallo slogan che in America esiste l’1 per cento che è sempre più ricco, mentre il 99 per cento degli americani peggiora giorno dopo giorno». Quali sono state le scelte che hanno accelerato questo processo? «Sono accadute molte cose, anche se è difficile analizzarle come un insieme. Durante la presidenza Reagan, per esempio, è stato ridotto il ruolo del sindacato, un’entità importante per far migliorare la situazione di coloro che stavano più in basso nella scala sociale ed economica. La deregulation, a partire dal settore finanziario, ha avuto un ruolo decisivo perché furono cancellate norme utili a uno sviluppo equilibrato. Anche la politica fiscale con la riduzione delle tasse sui redditi più alti e sulle rendite finanziarie ha prodotto effetti negativi e l’esempio più eclatante lo abbiamo visto nei mesi scorsi con la vicenda dell’imprenditore milionario ed ex candidato alla Casa Bianca Mitt Romney che pagava in percentuale meno tasse della sua segretaria. Aggiungo che è una fandonia dire che imposte più basse sono il motore dello sviluppo e della crescita: la Svezia, dove le aliquote sono più alte che negli Usa, cresce meglio di noi e ha un tasso di disuguaglianza molto più basso rispetto al nostro». Perché si è rotto quel tacito accordo che ha consentito a pochi di guadagnare moltissimo a condizione che anche tutti gli altri migliorassero in modo visibile e duraturo il loro tenore di vita? «Determinante è stata la cultura che si è insinuata tra i manager delle grandi aziende: hanno teorizzato il diritto ad avere sempre di più in termini di stipendi e bonus sia quando le loro società non andavano bene e licenziavano lavoratori per diminuire i costi, sia quando i conti miglioravano grazie a cause esterne e che non dipendevano dalla loro capacità manageriale come la diminuzione del prezzo del petrolio. Io ho parlato con molti amministratori delegati che sono stati alla guida di aziende negli anni dello sviluppo per tutti: individuano nell’affievolirsi della ragionevolezza e dell’onestà dei comportamenti il cambio culturale decisivo». L’origine culturale di questo mutamento? «Quel pensiero che dice io, i miei interessi e le mie necessità prima di tutto e di tutti gli altri. Con il risultato che questo eccessivo individualismo ha messo in discussione il senso di comunità che in America era forte. E ha generato due fronti di aspra battaglia. Il primo, tra il singolo e la collettività. Il secondo, tra il settore privato e quello pubblico». L’America non è mai stata una terra in cui l’uguaglianza era il primo dei valori. Ma è stata vista come la terra delle uguali opportunità per tutti. È ancora così? «Più del fatto che l’1 per cento ottenga moltissimo a scapito degli altri e che ci sia forte disparità nei redditi, preoccupa la diminuzione delle opportunità. Storicamente l’Europa è stata vista come una società rigida in cui minori erano le opportunità per tutti, mentre l’America era l’Eldorado dove c’era la possibilità di passare dal punto più basso a quello più alto della società. Oggi accade ancora, ma le statistiche dicono che abbiamo camminato all’indietro, che queste opportunità si fanno sempre più rare». Com’è stato possibile? «Tra i tanti cambiamenti quello che ha pesato di più è quello del sistema scolastico. È vero che gli Stati Uniti hanno buone scuole e ottime università, quasi sempre private, costose e a cui è difficile accedere. Se fin da bambino sei andato in una buona scuola è più facile arrivare in una buona università e alla fine avere una buona occasione di lavoro. Oggi si è creata una sorta di segregazione culturale e scolastica legata al percorso e perfino ai luoghi e ai quartieri dove ci sono le scuole di qualità». Il presidente Obama ha cominciato il suo secondo mandato all’insegna della battaglia per la middle class, per più ampie opportunità di accesso alle migliori scuole e per migliore nutrizione e salute. Ma oggi la classe media di cui parla Obama che cosa è esattamente? «Il presidente ha assolutamente ragione ad aver lanciato questa sfida, così come è corretto porsi la domanda su che cosa sia oggi la middle class. In termini statistici la classe media è sprofondata verso la parte della società che è in basso». Qual è la situazione della disuguaglianza in Europa? «In alcuni Paesi dell’area scandinava come la Svezia l’indice di disuguaglianza è molto migliore che negli Usa, in altri come in Gran Bretagna si avvicina ai valori americani. Germania e Francia stanno meglio dell’Italia. Da un punto di vista generale possiamo dire che chi ha seguito il modello americano sta peggio». I programmi di austerità dell’Unione europea per uscire da crisi e recessione favoriscono o combattono la disuguaglianza? «Sono disastrosi. Creano disoccupazione e la mancanza di lavoro produce altra disuguaglianza. La disoccupazione deprime i salari e chi è senza lavoro ha bisogno di servizi sociali che però vengono diminuiti. L’austerità è una condanna a morte per i più poveri. È preoccupante sentire il capo della Bce Mario Draghi affermare, come ha fatto con il "Financial Times", la necessità di tagli al sistema del welfare europeo. Non si può usare la crisi per imporre un’agenda politica. Ed è anche sbagliato: ritorno a parlare della Scandinavia dove il sistema del welfare non ha subito tagli, le tasse sono più alte che nel resto della Ue, la crescita continua e la disoccupazione è più bassa. Anche la Germania che non ha toccato lo Stato sociale va meglio. Spiegatemi, quale sarebbe la relazione positiva tra tagli al welfare e risoluzione della crisi?» In Europa non c’è un pensiero unico e omogeneo, visto che la stessa Ue ha deciso di concedere più tempo a quei Paesi che non sono in grado di raggiungere gli obiettivi comuni per il perdurare della crisi… «È una mossa che va nella giusta direzione. Ma ci sono alcuni problemi da affrontare. Se si fa un mercato unico bisogna sapere che in caso di crisi i capitali del Paese con problemi vanno da un altra parte e quindi creano altri squilibri. Coloro che stanno più in basso nella scala sociale non hanno alcuna possibilità di uscire da soli dalla crisi e quindi sono destinanti a conoscere stagnazione e depressione. Si parla molto di crescita ma non mi sembra di vedere ricette, in particolare per creare occupazione tra i giovani». La crescita della disuguaglianza coincide con il fenomeno della globalizzazione. Lei ritiene che quest’ultima abbia aumentato o diminuito la disuguaglianza? «Ha ottenuto entrambi i risultati. In pochi Paesi, però molto grandi e popolati come Cina e in India, milioni di persone hanno ottenuto benefici uscendo dalla povertà, anche se si sono create nuove disuguaglianze perché in pochi hanno avuto molto di più. Meglio è andata in Brasile, dove il processo della globalizzazione è stato accompagnato da incisive riforme. Dunque, globalmente la disuguaglianza è diminuita, anche se in alcuni Paesi sviluppati il fenomeno della deindustrializzazione ha portato a un abbassamento dei salari e dunque a nuova disuguaglianza». Qual è la ricetta per invertire il fenomeno della disuguaglianza? «Per quanto riguarda gli Stati Uniti bisognerebbe muoversi su questa strada: creare una legislazione anti-monopolio; fare una riforma fiscale con aliquote progressive e che non favorisca la speculazione; ridare forza al sindacato, anche se qualche volta ha commesso l’errore di diventare protezionista. Poi, eliminare le discriminazioni razziali e di sesso che portano a dare paghe diverse a uomini e donne o le banche a imporre condizioni svantaggiose a seconda dell’appartenenza a un gruppo razziale e incoraggiare dal punto di vista economico l’innovazione che crea nuove occasioni di lavoro e di conoscenza e non quella che riduce l’occupazione. Infine, rivedere il funzionamento del sistema educativo». Professor Stiglitz, lei ha scritto che la disuguaglianza è strettamente correlata con un capitalismo che non funziona. Esiste un capitalismo che funziona e dove? «Ritorno all’esempio scandinavo. L’economia è di mercato, c’è un governo che ha un ruolo nelle decisioni, c’è una società coesa, c’è l’innovazione, la concorrenza, l’apertura all’esterno. Certo, ci sono anche momenti di disuguaglianza, ma nel complesso la situazione è positiva».