Andrea Milluzzi, l’Espresso 1 marzo 2013, 1 marzo 2013
sventurato Iraq- La guerra, le bombe, la caduta di Saddam. Da allora il Paese vive ancora l’incubo degli attentati e della miseria
sventurato Iraq- La guerra, le bombe, la caduta di Saddam. Da allora il Paese vive ancora l’incubo degli attentati e della miseria. E la democrazia resta solo un sogno– Chi non si ricorda le immagini della statua di Saddam Hussein demolita da un tank americano in piazza Ferdousi a Baghdad davanti a centinaia (e non migliaia, come faceva pensare la stretta prospettiva delle telecamere embedded) di iracheni in festa? Sono passati dieci anni da "Iraqi freedom", la guerra lanciata il 20 marzo 2003 dalla "coalizione dei volenterosi" guidata dal presidente americano George W. Bush, che depose il raìs iracheno, ma l’Iraq resta un Paese devastato da autobombe, conflitti etnici, paura e povertà. E della "democrazia importata" resta solo, o quasi, l’appuntamento con le urne. Il tutto nel disinteresse pressoché totale dell’Occidente. Partiti gli ultimi soldati americani nel dicembre 2011 su decisione del nuovo presidente Barack Obama, l’Iraq e i suoi 38 milioni di abitanti sono scomparsi dai radar dell’informazione. Però si continua a morire. Secondo il ministro iracheno per i diritti umani tra il 2004 e il 2008 furono 85.694 le vittime (di cui oltre 60 mila civili), cui vanno aggiunti i 4.700 soldati della coalizione (4.396 americani). Poi, e fino ai giorni nostri, una catena endemica di attentati con migliaia di morti ogni anno, soprattutto concentrati nei principali centri. «Baghdad non è una città. Non lo è più. Il suo perimetro vivibile è ridotto alle dimensioni di un albergo», commenta amaro Saad Sa’id, 55 anni, poeta, tra le bancarelle di Mountanabi street, il mercato del libro, luogo di ritrovo irrinunciabile per i giovani studenti, gli intellettuali e i giornalisti del quotidiano "Al-Mada", la cui sede è lì vicino, una delle voci più importanti e ribelli del nuovo Iraq. Si fatica a ritrovare le tracce di dell’antica e nobile civiltà che fu tra i palazzi ancora mangiati dalle bombe e i cumuli lasciati ad aspettare un netturbino che non passerà. «Fidatevi, è così», insiste Saad. «Quest’atmosfera di libertà inganna. Qui siamo in un’oasi». È venerdì mattina, giorno di festa e di preghiera. Nel piccolo chiosco dove il il tè viene servito con calma, gruppi di uomini e donne, giovani e vecchi si ritrovano e si confrontano: «Eravamo una grande civiltà, ci hanno portato via tutto, anche il museo nazionale e la vecchia Babilonia. Il primo è chiuso e la seconda è diventata una base militare per gli americani. Che, come sempre hanno fatto gli occidentali, sono venuti e hanno preso senza dare nulla». Il regalo promesso di Iraqi Freedom era la democrazia. Una pratica del tutto nuova a cui gli iracheni si stanno con lentezza avvicinando. Come è chiaro anche nelle aule dell’università statale di Baghdad. «Studio perché voglio capire cosa è davvero la democrazia per poi metterla in pratica quando diventerò un politico», dice uno dei 2 mila studenti della facoltà di scienze politiche. Passati i minuziosi controlli antiterrorismo si entra nell’ateneo, un ambiente sereno, dove ragazzi e ragazze si mischiano e in ogni aula campeggia il ritratto di un personaggio del passato. «Prima del 2003 dovevamo insegnare la cultura, l’identità e la sicurezza nazionale. E, ovviamente, il pensiero e le pratiche di Saddam e del partito Ba’th», ricorda Abdul Jabbar Ahmed, direttore del college: «Adesso facciamo lezioni sui diritti umani e la politica americana. È difficile, perché se nei programmi, ad esempio sui poeti, non ci devono essere riferimenti ad una parte o all’altra. Che so?, Thomas Eliot potrebbe apparire sciita e Shakespeare sunnita. E se è vero che gli affiliati al Ba’th non possono insegnare è vero anche che è impossibile capire chi è ancora bathista nel pensiero. Ma ci stiamo provando». La guerra fra sciiti e sunniti che sta dilaniando il Medioriente e l’Islam ha avuto in Iraq il suo primo banco di prova. Eliminato il tappo della dittatura, americani ed inglesi si sono trovati in un terreno minato dagli odi tribali e settari che dividono l’Iraq in almeno tre parti: al Nord il Kurdistan, dove i quattro milioni di curdi hanno da quasi vent’anni un’economia stabile e prospera, un governo autonomo, preludio all’indipendenza, e il loro esercito da contrapporre a quello iracheno; un Sud sciita che dopo l’elezione nel 2006 del premier Nouri Al-Maliki cerca di vendicarsi dei soprusi subiti durante l’epoca di Saddam; il triangolo sunnita ad ovest, fra Mosul, Baghdad e Tikrit, territorio ancora in mano ad Al Qaeda, alle milizie irregolari e al neonato esercito iracheno libero, "fratello" di quello che si è formato nella confinante Siria e serbatoio di odio anti-occidentale di stampo salafita e fondamentalista. «Volete andare a Mosul? Se un occidentale va a spasso là è fortunato se viene rapito, ma è più normale che venga ucciso per strada», ammonisce Aous, giornalista, 24 anni, cristiano di Qaraqosh, piccolo paese a 15 chilometri dall’inferno, luogo di accoglienza per tutti coloro che hanno lasciato Mosul dopo l’ennesimo rapimento o lutto familiare. Impossibile andare avanti, impensabile recarsi a Falluja, teatro nel 2004 del bombardamento statunitense al fosforo bianco, e sempre rievocato dalle immagini di bambini deformi che la tv nazionale manda spesso in onda. Dal 2003 al 2007 l’Iraq era terra di nessuno e non esiste iracheno, cristiano, sunnita o sciita che sia, che non abbia subito perdite in un attentato, una rappresaglia o una sparatoria. Un tutti contro tutti dove i soldati occidentali erano gli obiettivi principali delle milizie. Racconta Said, insegnante della capitale che sostiene di non tifare per nessuno in questa guerra fratricida: «Mia mamma era vecchia e malata, è morta nel 2004. Ma fino all’ultimo mi diceva: figliolo, dì ai quei giovani che stanno combattendo gli stranieri che posso cucinare per loro e riparargli i vestiti». Mohammed, 30 anni di Bassora, un perfetto inglese eredità dei soldati di sua maestà per i quali ha fatto il traduttore per quattro anni, ricorda: «Alle cinque del pomeriggio scattava il coprifuoco e dovevamo inventarci come passare il tempo. Io avevo la mia playstation». A Bassora, l’unica città marittima dell’Iraq, Il Tigri e l’Eufrate, i due fiumi culla della civiltà mesopotamica sono ancora imponenti e inquinati. Iracheni e iraniani si dividono il commercio per mare davanti al palazzo di Saddam Hussein, un complesso architettonico maestoso, costruito negli anni Ottanta per ospitare il raìs quando si faceva vedere da queste parti (cioè mai) poi diventato una base per i militari britannici e infine una caserma per gli iracheni. Vuoto era e vuoto è rimasto, ancora inaccessibile senza il permesso del governatore locale. È nell’estremo Sud che si capisce come l’Iran stia oltrepassando i confini ed estendendo, nell’area abitata dai correligionari, la sua influenza: stesso controllo che c’è a Teheran da parte di polizia e partiti politici, stessa censura dell’informazione (che ha colpito anche Al Jazeera, cacciata dall’Iraq con l’inizio della rivoluzione araba in Tunisia ed Egitto) stessa paranoia di spionaggio e controspionaggio e stesso attaccamento all’Islam sciita. Nel suq cittadino non si incontrano donne che non siano avvolte dal nero chador all’ombra delle centinaia di effigi dell’Imam Husayn. Mohammed osserva: «Gli inglesi qui hanno avuto un approccio migliore di quello statunitense. Hanno parlato con i capi tribù locali e hanno dato soldi e responsabilità ai più affidabili fra loro.Purtroppo poi la corruzione ha preso il largo. Prima dovevamo fare i conti con un despota, ora abbiamo tanti piccoli Saddam». Corruzione, nepotismo e fanatismo religioso, dunque. Ma il problema più urgente rimane la sicurezza. Il primo governo democraticamente eletto ha proibito la detenzione di armi nelle abitazioni, ha formato un esercito e una polizia locale, ma la parte del leone spetta ancora alle agenzie di sicurezza private, i contractors importati ai tempi dell’occupazione occidentale. Le ong irachene, in collaborazione con alcune americane e spagnole, hanno censito 120 agenzie provenienti da Usa, Inghilterra, Francia, Australia, Sudafrica e molti altri Paesi: bodyguard e scorte armate scorrazzano sul territorio a protezione di manager, diplomatici, parlamentari e ministri del governo che non si fidano del proprio esercito. Una macchina che si muove senza un controllo e una legge che possa limitarla, tanto che si contano centinaia di incidenti provocati dai contractors e che hanno coinvolto iracheni innocenti. Nessuna sicurezza, nonostante tutto l’Iraq sia presidiato da posti di blocco e controlli. Dall’alto del secondo piano di un bus cittadino, retaggio del periodo britannico, si ha un’immagine eloquente del reticolo di checkpoint che asfissiano Baghdad: centinaia di taxi gialli sono in fila per passare il metal detector mentre frotte di uomini bussano ai finestrini per piazzare fazzoletti, sigarette, acqua o benzina: «Taxista, soldato e venditore ambulante sono i lavori più diffusi in Iraq», spiega Noof, 24 anni, attivista politica e attrice di teatro: «D’altronde, per entrare nella pubblica amministrazione devi essere amico o parente o affiliato ad un partito, se fai il soldato guadagni 700 dollari al mese e nei periodi buoni ne fai altrettanti vendendo merce in mezzo al traffico. Alternative non ce ne sono». Non esistono stime precise sulla disoccupazione perché il governo non le fornisce, ma basta vivere la città per capire che più della metà dei suoi abitanti non ha un lavoro. La grande fuga seguita alla dittatura e a causa della guerra prima palese e ora scrisciante, ha svuotato l’Iraq di molti suoi abitanti. Eppure i giovani, almeno quelli che sono rimasti, non hanno perso la voglia di riprendersi in mano il loro Paese. E a loro bisogna guardare sei si vuole cogliere almeno un segno di speranza. Sono nate associazioni che si preoccupano dei diritti delle donne e delle minoranze, sono proliferati i sindacati e le attività culturali. Internet e il libero mercato hanno portato merci e costumi occidentali, così sotto la statua di Sherazade si incontrano ragazzi che ballano sulle note di Michael Jackson, sfidando i pregiudizi e l’omofobia della società. Devono crescere in un dedalo di permessi e restrizioni, ma non hanno paura. Tanto che da due mesi a questa parte ogni settimana nelle maggiori città del Paese ci sono manifestazioni spontanee per chiedere sicurezza, servizi, lavoro e la fine di corruzione e settarismo. Forse ha ragione il poeta Fandar, anche lui frequentatore di Moutanabi: «La colpa di questo caos è anche la nostra che non abbiamo mai imparato ad emanciparci dalle varie occupazioni». Ma servirà del tempo prima di poter parlare di un Iraq libero e democratico perché, come osserva George, ex soldato, ex ingegnere e cristiano fuggito in Kurdistan, «questo Paese è come un bambino in fasce e se lo fai crescere male continuerà in quella direzione. Finché le prossime generazioni non sapranno migliorarlo».