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 2013  febbraio 28 Giovedì calendario

AI CONFINI DELLA REALT

[Perché la letteratura non può descrivere il mondo] –
Nelle stanze più silenziose del potere a qualcuno, in questi giorni, sarà pur tornato in mente l’annoso slogan sessantottino «Siamo realisti, chiediamo l’impossibile ». Agli eventi elettorali che hanno scosso gli assetti già così precari della Repubblica non pare infatti estraneo il motto attribuito a Guevara (ma ha un analogo, se non un precedente, in una pagina del Caligola di Camus). Non è da lì, però, che Walter Siti dichiara di aver tratto il titolo del suo ultimo libro: Il realismo è l’impossibile (Nottetempo) bensì da un aneddoto poco noto. Jacques Lacan aveva sottoposto anche Pablo Picasso al test che riservava ai suoi ospiti: lo svelamento improvviso del quadro L’origine del mondo di Gustave Courbet, che allora era proprietà dello psicoanalista. Ammutolito da quella rappresentazione del sesso femminile, allora inedita, il pittore avrebbe infine detto: «La realtà, è l’impossibile».
Della realtà stiamo facendoci una mania: la realtà che dopo l’11 settembre ci ha rianimato a schiaffi da ogni illusione di fine della storia; la realtà “bentornata” e tattile, in forma di spigolo su cui i filosofi del New Realism vogliono farci battere la testa; il principio di realtà che gioca a ping-pong rimbalzando tra i protagonisti della scena italiana; la realtà come bandiera non di una ma di quattro correnti del mainstream letterario italiano: narrazioni “sociali”, su lavoro e precariato; “storiche”, su nazismo e criminalità; “autobiografiche”, su idiosincrasie personali; “romanzesche”, nel senso mimetico e tradizionale.
La piattezza di queste concezioni della realtà ispira al realista Siti una critica tanto affabile nei toni quanto radicale nella sostanza. È che per lui, ma non solo per lui, il realismo si sforza «di far rivivere nientemeno che la vita» ma deve farlo senza nascondersi che «il linguaggio non può imitare se non il linguaggio ». Deve selezionare, ritagliare porzioni di realtà (così come Courbet non ha ritratto la testa della sua modella), sfuggire continuamente all’usura delle rappresentazioni già date. A questo proposito Gilbert K. Chesterton parlava di un realismo “elfico” che consiste nel «fissarsi su un particolare della realtà con un distacco di sguardo che lo trasfigura». Siti lo segue: «Il realismo, per come la vedo io, è l’antiabitudine: è il leggero strappo, il particolare inaspettato, che apre uno squarcio nella nostra stereotipia mentale»; poi va oltre, quando decide, non del tutto scherzosamente, di applicargli l’etichetta di “realismo gnostico”. È un realismo che diffida del suo stesso demiurgo; un gioco le cui mosse prevedono la menzogna e la digressione, lo svelamento e il nascondino, visto che «la rappresentazione della realtà è efficace se sembra nascondere sempre un altro strato della realtà». Se la signora realtà pretende di usarlo come specchio, il realismo la apostrofa con insolenza: «Cara realtà, adesso te lo spiego io dove volevi arrivare». La realtà stessa diventa un trampolino secondo un’immagine comune a Gustave Flaubert, Henry James ed Émile Zola, che si proponeva «il salto nelle stelle mediante il trampolino dell’osservazione esatta».
Il dettaglio realista di Roman Jakobson e lo straniamento di Viktor Sklovskj fanno sì chi che un oggetto qualsiasi possa diventare un feticcio, come per un innamorato, una fonte di sorpresa, persino un simbolo e proprio in funzione del nitore con cui viene rappresentato. Una quantità di artisti – scrittori, ma anche pittori e scultori – viene convocata da Siti per fornire esempi che puntualmente sciolgono ogni equivoco sul realismo come rispecchiamento.
Veloci cameo ci fanno salutare ora Proust, ora Dostoevskij, e poi Stendhal, Bernini, Tolstoj, Goethe, Caravaggio, Omero e molti altri fra cui anche Kafka e, soprattutto, Nabokov (lo scrittore per cui “realtà” è «una della poche parole che non ha alcun senso se non la si scrive fra virgolette») ed è ammirevole come Siti non consenta a un tale parnaso di rendere minimamente pesante, e pedante, il suo discorso tanto piano quanto appassionato (con tutta la cordialità del parlato dell’intervento di Siti al Festival della Mente di Sarzana da cui è scaturito). È un libro che si può leggere dunque a diversi livelli di profondità, capace di attrezzare di qualche strumento non scontato persino il lettore più superficiale. Il lettore abituale di Siti, invece, ritroverà il tono sornione dei suoi romanzi e si chiederà se persino questo disvelamento della sua poetica non ne faccia parte integrante, come un ulteriore gioco di autoreferenzialità deviata. Non vi sostiene forse che ogni svelamento è impossibile? Che i realisti di talento (e lo dice uno di loro: Maupassant) «dovrebbero chiamarsi piuttosto illusionisti »? Che «la tecnica realista è un inseguimento infinito a rappresentare zone sempre più nascoste e proibite della realtà, impiegando artifici sempre più sofisticati e illusionistici»?
La realtà abita volentieri il proprio stesso rovescio. Siti lo dice sin dalla prima pagina, dove ci presenta il giovane e squattrinato Charles Dickens, avventore abituale di una modesta «coffee room», imbambolato a leggere a rovescio la scritta stampata sulla porta a vetri: «moor eeffoc». Divenuto ricco e famoso, ogni volta che Dickens si ritrovò a guardare la stessa scritta, ma dall’interno di locali eleganti, veniva investito dalla memoria involontaria del suo passato, preciso e intatto, come sarebbe successo mezzo secolo dopo ai personaggi di Proust. Per Chesterton, da cui Siti ricava questa storia, il bifronte “moor eeffoc” è «il motto di ogni realismo efficace»: il dettaglio povero e insensato che salta dal trampolino della realtà verso la realtà che non si raggiungerebbe altrimenti. Ma, a proposito di bifronti e di riflessioni speculari, se il realismo “gnostico” è inteso assolvere «il reale dalla colpa di essere quello che è», il bizzarro Chesterton farebbe forse notare a Siti che proprio “quel che è” si legge a rovescio nel suo stesso cognome, nella più dimessa constatazione anglofona: “it
is”.