Maurizio Ricci, la Repubblica 28/2/2013, 28 febbraio 2013
IL SALVAGENTE DELLA BCE
“ATTENTI al contagio” ammonisce uno dei grandi protagonisti della politica europea, il ministro delle Finanze tedesco, Schaueble. Ma già martedì mattina, una grande banca mondiale come Citigroup, avvertiva i suoi clienti: «Bentornati alla crisi dell’euro».
IN REALTÀ, non è la stessa crisi e questa, rilanciata dalle elezioni italiane, è anche più complicata. Perché, rispetto a sei mesi fa, prima che Draghi facesse scendere in campo la Bce e spegnesse quella tormenta finanziaria, le crisi, ora sono due: una politica (la reazione popolare all’austerità), l’altra economica (la reazione postelettorale dei mercati finanziari). E, mentre un anno fa la lettura della crisi era, giusta o sbagliata, più o meno univoca, ora ce ne sono due, contrastanti e contraddittorie, per diagnosi e terapie: allentare l’austerità, per frenare la fuga degli elettori o inasprirla, per tamponare quella degli investitori. Scegliere fra l’una e l’altra, per l’Europa, non sarà facile e, se prevarrà la logica dell’emergenza, a farne le spese sarà soprattutto, in termini di stretta e rigore, il soggetto più debole: un governo italiano, per ora solo ipotetico e, comunque, condannato ad essere fragile e precario.
A dare un po’ di fiato c’è una situazione che, oggi, sui mercati finanziari, non è quella drammatica di fine 2011, che portò alla caduta del governo Berlusconi. Da quando Draghi, questa estate, ha dichiarato che la Bce è pronta ad intervenire per salvaguardare l’euro, le tensioni, testimoniate dagli spread, si sono allentate, grazie al ritorno, sui mercati dei Bot dei paesi deboli, degli investitori istituzionali, anziché degli speculatori. Ieri, l’asta dei titoli italiani decennali ha detto che per ora non c’è una fuga degli investitori. E, dopo la cura del 2012, i dati della finanza pubblica italiana mostrano una situazione sotto controllo. Contemporaneamente, l’ortodossia ideologica dell’austerità ad ogni costo, grazie anche alle pressioni della Casa Bianca e dell’Fmi, si è addolcita, come testimonia la comprensione mostrata, in
questi mesi, dalle autorità europee verso Grecia, Spagna e Francia. É in questo clima che i critici dell’austerità si sono fatti sentire ad alta voce: il voto italiano, dicono, è anzitutto una reazione alle ricette spietate dell’austerità. Lo dicono osservatori esterni, come l’americano Paul Krugman, ma anche voci influenti del Parlamento europeo, come il presidente, il socialdemocratico Martin Schulz, e il leader dei liberali, l’ex premier belga Guy Verhofstadt. In Italia, euroscettici come Grillo e Berlusconi hanno preso, insieme, più di metà dei voti. In Spagna, percorsa da una velenosa crisi politica, i partiti guida tradizionali, come socialisti e popolari, secondo i sondaggi non arriverebbero, insieme, al 50 per cento. Il pericolo, ora — è la conclusione — è che la rivolta contro l’austerità si trasformi in rivolta aperta contro l’Europa. Insomma, siamo di fronte anche ad un contagio “politico” che, partito dalla Grecia, è ora esploso in Italia e rischia di deflagrare in Spagna.
I tempi della riflessione sollecitata dai critici dell’austerità potrebbero, però, non essere compatibili con quelli, assai più serrati, dettati dai mercati finanziari. L’impennarsi degli spread italiani ha trascinato quelli spagnoli: il secondo contagio, quello finanziario, temuto da Schäuble, è pronto per essere innescato. Se i capitali ricominciassero a defluire all’estero, se le banche italiane dovessero pagare di più per finanziarsi, la stretta al credito diventerebbe più severa, le speranze di ripresa economica si farebbero più fievoli e la gestione del debito pubblico tornerebbe ad apparire insostenibile. Allora, toccherebbe alla Bce intervenire per frenare il panico. Ma l’intervento ha un prezzo: un programma concordato di austerità e riforme. E questo programma, oggi, sarebbe assai più severo di quello che, teoricamente, sarebbe stato varato, ancora solo pochi mesi fa, quando il governo Monti era in carica.
Il ministro del Tesoro, Vittorio Grilli, ha più volte sostenuto che, in caso di intervento Bce, l’accordo, nel caso italiano, consisterebbe nel ribadire gli interventi di risanamento già decisi. Ma questo, oggi, non vale più. Quali che siano i dubbi sull’efficacia immediata dell’austerità, senza un governo solido, a cui affidare la realizzazione delle riforme auspicate, la natura dell’intervento europeo e il ruolo della Troika (Commissione di Bruxelles — Banca centrale europea — Fondo monetario internazionale) chiamata a vigilare sul rispetto dell’accordo, cambiano. Anziché restare un sorvegliato speciale, l’Italia rischierebbe una sorta di commissariamento. Lo abbiamo già visto in Grecia, dove la Troika non si limita a dettare direzione e misura delle riforme, ma ne verifica anche, sul campo, l’applicazione. Paradossalmente, più debole un futuro governo italiano, chiamato a negoziare con Bruxelles i termini di un
intervento della Bce, più severe le condizioni che sarebbero poste ad un esecutivo troppo fragile e precario per essere efficace ed affidabile. Ma il paradosso funziona anche al contrario, per l’Europa: si può chiedere ad un governo fiaccato dal-l’austerità, di aprire un negoziato che porti a più austerità? O si rischia che il governo rinunci, mettendo in gioco la sopravvivenza dell’euro?
Fino alla scorsa settimana, nella situazione più distesa dei mercati e con un atteggiamento più flessibile di Berlino e Bruxelles, era possibile pensare ad un governo italiano, solido e stabile, che andasse a rinegoziare, al tavolo europeo, i termini dell’austerità, in senso più favorevole alla crescita. Oggi, quella strada si è, probabilmente, chiusa e si è aperta quella che porta esattamente in direzione opposta. Se i mercati non daranno tregua, l’Italia rischia di essere costretta ad imboccarla.