Chiara Gamberale, Vanity Fair 27/2/2013, 27 febbraio 2013
IL KENIA: PROPRIO UN BEL «CASINO»
«Q uesto Paese è un amplificatore di tutte le emozioni, positive o negative che siano. Stare qui è come farsi una flebo di intensità ogni giorno», mi risponde Alberta La Scala. Vent’anni fa, si è inventata un gioco, come piace dire a lei, e ha mollato la sua attività imprenditoriale a Bologna per ristrutturare e affittare le Kenya Charming Villas (kenyacharmingvillas.com), un comprensorio di belle case sulla spiaggia fricchettona di Diani, dove quaranta persone del posto hanno trovato un lavoro e uno stipendio garantiti e i turisti trovano, appunto, le loro emozioni amplificate, la loro intensità restituita.
«Perché le persone, nonostante i problemi che il Kenya presenta e non si sforza neppure troppo di nascondere, insistono a venire qui?», era la mia domanda ad Alberta. Preoccupata, come tutti gli occidentali che hanno scelto di trasferirsi da queste parti, dei sempre più frequenti episodi di violenza (ultimo: l’assalto alle ville degli italiani, con due feriti, la settimana scorsa). Ma, come tutti loro, convinta che «l’ombelico dell’Africa» abbia sempre almeno una possibilità in più di farcela rispetto a quanti sono i pericoli che lo minacciano. «Questo è un Paese in crescita», afferma, decisa.
I dati sembrano darle ragione: Mwai Kibaki, il presidente uscente, nei suoi due mandati, dal 2002 a oggi, ha rinnovato le infrastrutture, regolarizzato i trasporti, migliorato i mercati. Ora che con il quattro marzo le elezioni si avvicinano, a continuare idealmente il lavoro di Kibaki sarebbe il suo attuale primo ministro, e candidato, Raila Odinga. «Voto Raila perché tiene alla pace, alla salute pubblica e alla sicurezza», mi spiega Hassan, uno dei dipendenti di Mama Alberta.
L’unico vero oppositore di Raila è Uhuru Kenyatta, su cui grava l’ombra delle accuse dell’Aia di avere fomentato i tafferugli post elettorali nel 2007, quando solo l’intervento di Condoleezza Rice riuscì a frenare una situazione che stava per diventare incontenibile. Il timore che le intolleranze fra tribù e fazioni politiche tornino ad accendersi c’è.
«E la “signora Farnesina” mica ci avverte», si lamenta Rodolfo, un vicino di Mama Alberta, che a novantadue anni ha scelto di venire a vivere («a morire», dice lui, sorridendo) qui. «Se noi abbiamo dei timori le scriviamo: ma dal ministero
rispondono con un ciclostile vecchio, magari di dieci anni fa. Poi certo, se succede qualcosa, intervengono. Ma guai che ci aiutino a prevenire».
«Non ti lamentare, su: abbiamo la fortuna di vivere sotto un cielo solido e perfetto, come scriveva Bowles nel Tè nel deserto», lo interrompe Alberta. Ma il suo ottimismo contagioso e il suo amore per l’Africa non la privano di lucidità: così come considera gli assalti ai resort e alle ville di Malindi eventi bestiali ma a sé stanti, che non possono essere considerati di routine, conosce bene la pancia del Kenya. «Sono passati quasi cinquant’anni da Africa addio, il documentario capolavoro di Gualtiero Jacopetti, che come nessuno ha messo in evidenza la ferocia e la follia che con la decolonizzazione hanno rischiato di esplodere. Eppure certe dinamiche non smetteranno mai di esistere. Ci mancavano solo i cinesi, adesso, che si sono messi, indisturbati, ad ammazzare gli elefanti. È e sempre rimarrà un casino, il Kenya. Eppure...».
C’è sempre un «eppure», per persone come Mama Alberta. Infatti: «Eppure nessun Paese ha la sua natura. Pazza, meravigliosa, inebriante. I suoi parchi rimangono unici nel mondo, io almeno una volta all’anno devo andare a respirare l’energia che c’è al Masai Mara, devo. I tramonti sulla spiaggia di Diani, poi, non sono solo tramonti: sono esperienze. Il primo uomo è nato qui, lo sai, no? Ecco perché senti subito una specie di benessere salirti dentro, appena posi il piede su questo suolo. Perché non sei arrivato: sei tornato a casa».