Nicola Lombardozzi, la Repubblica 27/2/2013, 27 febbraio 2013
LA NUOVA GUERRA FREDDA
A FURIA di nominarla, la Nuova Guerra Fredda non poteva che scegliersi due scenari come Berlino e Cuba. Nella capitale tedesca, nido di spie nei cruciali anni Cinquanta, il neo segretario di Stato Usa John Kerry e il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov hanno provato ieri a stringersi la mano e a scambiarsi qualche sorriso senza scalfire le rispettive diffidenze. In partenza dall’isola dei fratelli Castro, il premier russo Dimitri Medvedev ha invece lanciato promesse di futura collaborazione pur avendo appena firmato un maxi accordo petrolifero con l’Avana
che già preoccupa gli eterni rivali di Washington.
La Nuova Guerra Fredda è fatta così.
Niente a che vedere con i toni cupi che fecero sentire più volte il mondo intero sull’orlo dell’abisso. Piuttosto una serie di ritorsioni reciproche, piccoli e grandi dispetti che vanno al di là delle grandi questioni delle testate nucleari, della crisi siriana o della bomba iraniana ma finiscono per ritorcersi per esempio sulle sorti di migliaia di bambini russi abbandonati o sull’azione benemerita di tanti volontari americani che si dedicano all’assistenza dei poveri e dei malati. Una tensione più sottile e certamente meno cinematografica di quella passata alla storia ma certamente più palpabile dalla gente comune.
Mai, dai tempi della fine del-l’Urss, Mosca e Washington si erano trovati a ad avere rapporti così difficili e minacciosi. Un bel fallimento, almeno fino a ora, di quella che Obama aveva chiamato «operazione reset» puntando a un approccio diverso tra le due grandi potenze. Gli americani accusano, con molte ragioni, la Russia di una pericolosa deriva sempre più autoritaria, con nuove leggi che pochi mesi fa Hillary Clinton definì «un ritorno all’Unione Sovietica». Mosca risponde con toni d’altri tempi indicando la mano occulta della «solita ostile potenza straniera», dietro alle manifestazioni di piazza contro il governo, perfino quando si parla di clamorosi casi di corruzione locale. E cerca di riaccendere, con qualche risultato, l’antiamericanismo inculcato nell’era sovietica a generazioni di russi divisi tra la fascinazione per l’Occidente e l’orgoglio di rifiutare lezioni di vita e di democrazia.
Ma come in tutte le grandi storie non mancano i piccoli, non trascurabili, fattori personali. Tra politologi ed economisti che studiano il fenomeno della Nuova Guerra Fredda, in molti giurano che tutto sia cominciato con una fotografia riportata dai media russi e adesso incorniciata sulla scrivania del premier Medvedev:
c’era lui, allora presidente di Russia in carica, che addentava goffamente un hamburger in un fast food di Washington davanti allo sguardo complice di un Obama in maniche di camicia. Era l’estate del 2010 e tutto filava liscio. Russia e Stati Uniti sembravano a un passo da grandi accordi in campo informatico e perfino la spinosa questione dello scudo missilistico americano in Europa dell’Est sembrava risolvibile
con una franca trattativa.
L’eccessiva simpatia manifestata da Obama per il «moderno e democratico» Medvedev non ha però fatto molto piacere a Vladimir Putin, vero numero uno di Russia che aveva già deciso di ricandidarsi e riprendersi la poltrona di Presidente lasciata in prestito per motivi puramente tecnici (la costituzione non prevede più di due mandati consecutivi) al suo discepolo.
Solo una banale questione di gelosia? Anche. Certamente da allora in poi Obama e i suoi hanno continuato a imboccare una strada pericolosa per quanto riguarda i futuri rapporti con Putin. Il primo incidente è quello della visita a Mosca del vice presidente Biden che, ospite degli studenti di una scuola sentenziò che «la riconferma di Medvedev sarebbe stata fondamentale per lo sviluppo democratico del
Paese». Consiglio non richiesto e tragicamente inopportuno se si pensa che solo una settimana dopo Putin annunciò la sua decisione di ritornare al Cremlino.
Ma c’è di peggio, almeno dal punto di vista russo. All’inizio di gennaio Washington nomina il nuovo ambasciatore a Mosca, il giovane Michael McFaul. Sono giorni difficili in cui centinaia di migliaia di persone sorprendono Putin e il mondo scendendo in piazza a sfidare il gelo e la polizia per protestare contro di lui. E i giornali scoprono che McFaul è un vero esperto di Russia. Ha studiato e scritto saggi. Uno di questi spiega come le rivoluzioni “colorate” potranno smantellare il regime di Putin. Sembra lo schema,
previsto con anni di anticipo, di quello che si vede per le strade.
E che ti fa l’ambasciatore Mc-Faul? Appena arrivato telefona ai vari leader della opposizione di piazza e li invita a un
party
segreto in ambasciata. Segreto un invito telefonico agli oppositori nel mirino della polizia? Impossibile. I giovani leader dopo il brindisi con McFaul trovano le telecamere e i microfoni delle tv di Stato russe che li immortalano e certificano «la prova della loro dipendenza dagli Stati Uniti».
Una falsa partenza che raffredda ogni rapporto. Perfino Sergej Lavrov, il ministro degli Esteri che pettegolezzi russi e americani vogliono “sentimentalmente attratto” da Hillary Clinton, cambia bruscamente
atteggiamenti e argomenti con la sua vecchia amica.
E l’insediamento di Putin al Cremlino innesta la marcia decisiva. Le leggi contro il dissenso, rispolverate dal vecchio codice sovietico, si uniscono a provvedimenti tutti mirati contro gli Usa. A cominciare dallo status di “agente straniero” che viene imposto a tutte le organizzazioni che ricevono capitale dall’estero. Per questi aziende sono previsti obblighi fiscali e contabili praticamente insostenibili se si tratta di organizzazioni no profit. Ne pagheranno le conseguenze le organizzazioni benefiche in Russia del partito democratico Usa e di quello repubblicano. E anche la Usaid, grande organizzazione di assistenza e aiuti umanitari. Tutti costretti in pochi mesi a lasciare la Russia.
La risposta americana è dura e punta tutto su un episodio oscuro che risale al 2009. La misteriosa morte in carcere di Sergej Magnitskij, giovane avvocato russo dipendente della società di investimenti anglo britannica Hermitage Capital. Viene arrestato durante una perquisizione in ufficio e accusato di evasione fiscale. Risponde che è tutta una manovra di poliziotti e magistrati che cercano di estorcere un “pizzo” milionario alla sua azienda e dice di avere le prove che coinvolgerebbero perfino gente del giro di Putin. Lo trovano senza vita poco dopo e nessuno crede che sia una morte naturale. Il caso viene denunciato a gran voce dalla Hermitage Capital che intanto chiude i battenti a Mosca. Usa e Gran Bretagna chiedono un’inchiesta. Mosca reagisce pigramente e dopo quasi due anni conferma “morte naturale”. Con quella che probabilmente è una forzatura giuridica, il Congresso Usa
con l’appoggio diretto di Obama in persona vota la cosiddetta lista Magnitskij: una serie di funzionari e politici russi che sarebbero coinvolti nella morte dell’avvocato cui è negato l’ingresso negli Usa e a cui vengono congelati pure i beni in America.
Rispolverando le formule verbali della Guerra Fredda, Mosca risponde con una “reazione simmetrica” assolutamente imprevedibile: approva in una settimana il veto alle adozioni di bambini russi abbandonati a tutti i cittadini americani. Clamoroso perché gli orfanotrofi russi affidano ogni anno nei soli Stati Uniti 8mila bambini. Una decisione che mette nei guai le carenti strutture russe per l’assistenza all’infanzia e nella disperazione
i piccoli che già sognavano una nuova vita con una famiglia vera. E non finisce qui. Gli americani decidono di interrompere ogni collaborazione sul tema dei diritti umani e subito la Russia risponde annullando l’antico accordo tra polizie su lotta alla droga e terrorismo.
A muso duro, come negli anni ruggenti. Senza minacce nucleari ma con piccoli gravi danni per tutti. Rassegnato, il politologo Feodorov Lukianov sintetizza: «E’ una Guerra Fredda a bassa intensità. E durerà ancora. L’America ha bisogno dello spauracchio russo. E Putin usa questo conflitto per completare e giustificare le sue leggi sempre
più autoritarie».