Fabio Martini, La Stampa 27/2/2013, 27 febbraio 2013
GLI OTTANTACINQUE GIORNI CHE HANNO GELATO IL PD
Per tre mesi l’imminente vittoria del Pd veniva annunciata dai suoi capi ad ogni sorger del sole, ma nel frattempo la dote democratica andava sfumando, un po’ alla volta. Ottatantacinque giorni iniziati il 3 dicembre del 2012: erano trascorse poche ore dalla vittoria definitiva alle Primarie e un Bersani gasatissimo e spiritoso decise di lanciare la sua campagna elettorale, optando per i superlativi: definì il suo partito «uno squadrone» e disse: «la prossima avventura è il governo». In quelle stesse ore gli istituti di sondaggi offrivano solidi argomenti all’euforia di Bersani. Per la Ipsos di Nando Pagnoncelli il Pd era al 36% nelle intenzione di voto, mentre la coalizione progressista, assieme a Sel di Vendola e al Psi di Nencini era quotata al 43%, con un vantaggio abissale: nientedimeno che 22 punti sul centrodestra. E la Swg misurava il distacco tra i due schieramenti in 15 punti. Vantaggi formidabili, a rigor di logica incolmabili. Certo, in quei giorni in campo c’era soltanto il Pd: sul fianco destro, Silvio Berlusconi insisteva nel suo tiramolla - scendo in campo, no, forse mentre Antonio Di Pietro - inchiodato una volta per sempre alla risposta data ad una giornalista di “Report” (« Mia moglie non è ... mia moglie») - aveva trascinato la sua Idv ad un destino senza speranze, fotografato dall’1,9% della Ipsos.
Negli ottantacinque giorni successivi quel vantaggio di 15-22 punti si è azzerato. Un fenomeno originale, che si presta ad essere studiato dai politologi. La prima mossa - a metà dicembre - è la produzione di un manifesto con la faccia (seria) di Bersani, che contiene quello che sarà il logo-refrain di tutta la campagna elettorale: l’Italia giusta. In quell’aggettivo - giusta - preferito ad altri, c’è quasi tutta la campagna bersaniana. Campagna rassicurante, che scarta l’aggettivo «nuovo», cancella dai comizi termini come «riforme radicali», volentieri lasciati al professor Monti. Tanto è vero che, a metà gennaio, l’ennesima sortita di Nichi Vendola, è stroncata così: «Niente patrimoniale». Oltre al refrain «più lavoro», il messaggio subliminale è di continuità. Per dirla con un sondaggista come Roberto Weber della Swg, che viene dal mondo della sinistra, «il «Pd ha giocato di rimessa e questo corrisponde ad una precisa cultura politica, l’idea di una campagna elettorale come una guerra di posizione: si schierano le truppe e si avanza di qualche metro al giorno». Come dice un giovane dirigente del Pd: «Bersani ha scavato la sua trincea ed ha aspettato lì, scommettendo che il terreno conquistato in assenza del nemico, gli bastasse a vincer la guerra»
Ma nel frattempo, come in tutte le campagne elettorali, la guerra è diventata di movimento. L’11 gennaio parte lo Tsunami tour di Beppe Grillo e il Pd scommette sul fatto che il comico faccia un’altra gara, diversa da quella dei partiti “veri”. L’unico a segnalare il pericolo e a sollecitare un cambio di nemico, è Massimo D’Alema. Soltanto a poche ore dalla fine della campagna elettorale i ripetuti allarmi che arrivano dalla periferia - insistenti quelli dai dirigenti toscani - vengono raccolti da Bersani che accusa Grillo di essere «un miliardario». Resterà un assolo. Anche perché, secondo uno dei fondatori del Pd come Arturo Parisi, «quella di Bersani è stata una campagna interpretata tutta in modo proporzionale e, a forza di parlare soltanto ai propri elettori, si è perso per strada la stragrande maggioranza di loro, che lasciati liberi sono entrati nella disponibilità di Grillo». Il 3 febbraio si è mosso anche Berlusconi, che l’ha sparata grossa, annunciando la restituzione integrale dell’Imu. Bersani ha puntato a ridicolizzare la promessa, ma continuando a mantenere il profilo basso sulle grandi proposte per far uscire il Paese dallo stallo. In questo interpretando un’altra idea di lungo corso, di tradizione Pci, quella per cui «se ti esponi, sei attaccabilie», come ricorda Weber. Ma così, dopo aver rinunciato all’idea di contrastare politicamente Grillo e contendergli gli elettori, è stata accantonata anche l’idea eguale e contraria: conquistare voti di elettori delusi dal centrodestra e ieri si è scoperto che sono stati ben 7 milioni gli italiani non hanno votato centrodestra.
E nel frattempo lasciando correre l’idea che alla fine la vittoria sarebbe arrivata. Sostiene Iginio Ariemma, già portatoce di Achille Occhetto negli anni della svolta: «Dare per scontata la vittoria è stato uno di quegli errori che la sinistra ha sempre cercato di evitare, perchè liberi due diversi sentimenti: da una parte ti viene contro il voto di protesta, dall’altro la prospettiva di successo induce i più incerti a votare in altro modo, perché tanto si vince...».
Una campagna elettorale uniforme, compatta nella quale è difficile rintracciare una caduta, un momento di svolta. Dice Nico Stumpo, capo dell’Organizzazione, uno degli artefici delle Primarie: «No, non abbiamo mai avuto un momento nel quale abbiamo percepito una particolare difficoltà. Lo si è visto soltanto a cose fatte: l’elettore di destra aveva meno remore a dichiarare la propria propensione a votare per Grillo, mentre gran parte di quelli di sinistra avevano resistenze ad ammetterlo. E questo ha tratto in inganno i sondaggisti e non solo loro». Il risveglio è stato amaro. Il Pd di Bersani ha preso due milioni di voti in meno del Pd (sconfitto) di Veltroni e la coalizione progressista PdSel ne ha presi tre milioni e trecentomila in meno persino della indimenticata «gioiosa macchina da guerra» guidata da Achille Occhetto e sconfitta nel 1994 da un avversario che allora era davvero imprevedibile: si chiamava Silvio Berlusconi e sarebbe risceso in campo altre cinque volte.