Luca Ricolfi, La Stampa 27/2/2013, 27 febbraio 2013
LA SINISTRA CHE NON IMPARA DAI SUOI ERRORI
Le domande sono tante, ma ognuno se ne fa una diversa. C’è chi non si capacita che quello di Grillo sia diventato il primo partito italiano. C’è chi non si capacita che le ambizioni «terzo-poliste» di Monti e Casini siano state così severamente punite dagli elettori. C’è chi non si capacita che cattolici e comunisti siano praticamente scomparsi dal panorama politico italiano.
C’ è chi non si capacita che Bersani sia riuscito a dissipare un vantaggio che sembrava incolmabile. E c’è chi non si capacita del ritorno di Berlusconi, una specie di gatto dalle sette vite.
Personalmente, trovo tutti questi stupori ben poco ragionevoli, e non lo dico con il senno di poi. Che tutti questi eventi fossero perfettamente possibili, infatti, mi è capitato di scriverlo ripetutamente dalle colonne di questo giornale, per lo più suscitando la costernazione dei miei amici: non volevano credere che il premio di maggioranza potesse vincerlo persino Grillo, non riuscivano a concepire che le elezioni potesse vincerle anche Berlusconi, non vedevano che cosa ci fosse di autolesionistico nell’alleanza fra Monti e il mondo cattolico. Ecco perché, a me, nulla di quel che è accaduto pare davvero stupefacente.
Questo non vuol dire, però, che non sia stupito anch’io. Solo che è un’altra la cosa che mi stupisce. Non il fatto che Bersani, pur vincendo (il premio di maggioranza), sia il grande perdente di questa tornata elettorale: questo non era scontato, ma era nell’ordine delle cose prevedibili. Quello che, ancora oggi, continua a suscitare il mio stupore è invece il fatto che la sinistra, questa sinistra un tempo egemonizzata dal Pci e ora tenuta insieme dagli ex comunisti, sia assolutamente incapace di imparare dai propri errori. E quindi sia, per così dire, rigidamente programmata per ripeterli, cocciutamente e senza alcuna speranza di imparare alcunché dal proprio passato.
E dire che, per capire quali fossero gli errori da evitare, non ci voleva una mente molto raffinata. Il più grave, spiace dover sottolineare una simile ovvietà, è quello di non ascoltare la gente. Bersani ha offerto affidabilità, credibilità, rassicurazione (il famoso «usato sicuro») a un elettorato che, semplicemente, voleva prima di tutto un’altra cosa: un rinnovamento radicale della politica. Eppure quella richiesta di cambiamento era chiarissima e antica, visto che aveva già preso forma più di dieci anni fa (era il 2002), con la famosa invettiva-profezia di Nanni Moretti in piazza Navona: «Con questi dirigenti non vinceremo mai!».
Perché non hanno saputo o voluto ascoltare questo sentimento, che pure attraversa il popolo di sinistra da così tanti anni? Perché la classe dirigente della sinistra non impara mai dai propri errori? Perché non ascolta il suo elettorato?
Me lo sono chiesto tante volte, perché anch’io - se molte cose cambiassero - potrei esserne parte. E la conclusione cui sono arrivato è che la ragione vera, la ragione profonda, per cui la sinistra non sa ascoltare è una soltanto: è la fortuna. La sinistra può permettersi - o meglio: si è potuta permettere finora - di ignorare completamente il suo popolo per la sfacciata fortuna che la accompagna. La sinistra è come Gastone Paperone: almeno nella seconda Repubblica è stata così fortunata da potersi sottrarre a ogni controllo di realtà.
In che cosa è consistita la fortuna della sinistra?
La prima fortuna è di essere riuscita a vincere ben tre elezioni, quelle del 1996, quelle del 2006 e quelle attuali, nonostante la maggioranza degli italiani non l’avesse scelta. Vincere per il rotto della cuffia significa essere fortunati, ma è una fortuna che si paga, perché ti fa credere di aver fatto tutto giusto anche se non è vero. La sinistra ha da sempre il problema di allargare i propri consensi al di fuori della cerchia dei propri sostenitori tradizionali, ma non lo affronta mai perché una maledetta fortuna la accompagna in ogni tornata elettorale. Ciò vale, in particolare, per la tornata del 2006 e per quella attuale. In entrambe il candidato più capace di allargare il consenso, il candidato che avrebbe attirato voti anche dal campo avverso, il candidato che avrebbe assicurato un’ampia maggioranza in Parlamento, era una persona diversa da quella che poi effettivamente venne scelta. Nel 2006 il consenso di Veltroni era notoriamente molto più ampio di quello di Prodi. Oggi il consenso di Renzi è notoriamente molto superiore a quello di Bersani. Eppure l’apparato del partito non se ne cale: come in un tipico concorso universitario, promuove il candidato interno, o quello che ha le simpatie dei baroni, e dice agli outsider che devono avere pazienza, il loro turno verrà. Peccato che, quando il loro turno arriva, il giocattolo è rotto: a Veltroni venne consegnato un Pd lacerato dalle lotte interne e dai due anni di non-governo di Prodi, a Renzi verrà (forse) consegnato un partito militarizzato da Bersani e ancora un po’ ostile al ragazzino. Se avesse avuto meno fortuna, se non fosse riuscita a nascondere con vittorie tecniche sconfitte politiche, la sinistra avrebbe iniziato ben prima quel processo di rinnovamento che da tanto tempo attendiamo.
C’è poi una seconda fortuna, che nessuno nota mai. Negli ultimi venti anni l’economia, in Italia, è andata sistematicamente peggio che nel resto d’Europa ma, curiosamente, la destra ha governato sempre in anni di congiuntura negativa (2001-2005 e 2008-2011), la sinistra sempre in anni di congiuntura positiva (1996-2000 e 2006-2007). Il nesso è del tutto casuale, perché la congiuntura dipende essenzialmente dal resto dell’Europa, ma mi sono divertito a calcolare le probabilità che - in un quindicennio - la «dea bendata» distribuisca i suoi favori in modo così squilibrato: sono così basse che verrebbe da pensare che la dea non sia bendata come si dice. Anche questo ha contribuito a ritardare una diagnosi spietata su se stessa e sulle proprie politiche.
Ma forse la fortuna-sfortuna più importante della sinistra è il suo elettorato. Delle tre opzioni di cui, secondo la celebre analisi di Albert Hirshman, l’elettore-consumatore può servirsi, l’elettore di sinistra ne trascura sempre una: la defezione (exit). All’elettore progressista piacciono solo le altre due: la protesta (voice) quando le elezioni sono ancora lontane, la lealtà (loyalty) al momento del voto. L’elettore di sinistra, secondo tutte le indagini, è il più fedele, il più leale, o il più gregario, se preferite. Può mugugnare, indignarsi, criticare, parlare male del Pd per anni e anni ma poi, arrivato al dunque, immancabilmente mette la crocetta nella casella giusta. Con ciò, verosimilmente, raggiunge lo scopo che si prefigge (togliere voti all’odiato Cavaliere), ma ottiene anche un effetto che forse non desidera: quello di permettere alla classe dirigente del Pd di rimandare, ancora una volta, il momento di cambiare. Rinunciando a inviare ai politici l’unico segnale che essi (talora) mostrano di comprendere, l’elettorato di sinistra è destinato a tenersi i dirigenti che ha. Non per sempre, perché nessuno è eterno, ma più del necessario, questo sì.