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 2013  febbraio 26 Martedì calendario

IL CAV PREDICA CALMA E PENSA ALLA «BOMBA» RENZI

[Festa «sobria» ad Arcore. Governissimo: si fanno i nomi di Passera e del sindaco pd. Su di sé: «E se presiedessi il Senato?»] –
Lo spumante rimane in ghiacciaia. Chi pensa di trovare un Silvio Berlusconi impegnato a festeggiare il risultato elettorale rimane deluso. Il Cavaliere è sobrio e prudente. Quasi preoccupato. «Vediamo, aspettiamo i dati definitivi», frena l’entusiasmo dei suoi. Come aveva previsto, il Popolo della libertà era sottostimato nei sondaggi. Anche negli exit poll che, nel primo pomeriggio, avevano fatto sognare Pier Luigi Bersani e compagnia. Forse è addirittura andata meglio delle sue aspettative. Forse.
Arcore. L’ex presidente del Consiglio ieri ha pranzato con i suoi figli, come capita quasi tutti i lunedì. Poi si è trattenuto nel pomeriggio con la primogenita Marina e con l’avvocato Niccolò Ghedini. Quindi ha iniziato a seguire lo spoglio elettorale. Rimanendo cauto mentre il pendolo dei sondaggi passava dall’enfatizzare il risultato della coalizione di sinistra al segnalare la rimonta del centrodestra al Senato. E il sorpasso. E il pareggio. E poi la notizia più importante: i berluscones avanti nelle Regioni più popolose. Il che significa, con la legge elettorale che vige a Palazzo Madama, il prevalere del numero dei senatori azzurri su quelli democratici. Anche se in nottata gli ultimi dati del Piemonte avvantaggiano di nuovo il Pd.
Ma senza una maggioranza chiara. Ed è questo il fatto che non permette al Cavaliere di gustarsi la rimonta perfetta: «Eravamo partiti dal 15 per cento, in un mese abbiamo rimontato e agganciato Bersani. Siamo stati bravissimi. Anzi, sono stato bravissimo!». Ora viene il difficile, perché «ancora una volta gli italiani hanno sbagliato a votare, scegliendo troppi partiti». Come sfruttare il caos al Senato? Mentre attende che si compia lo spoglio alla Camera, dove le performance sono molto ravvicinate, Silvio valuta vari scenari. E tutti hanno la stessa chiosa: nuovo governo, presidenza della Repubblica, legge elettorale, «dovranno passare tutti da qui, le carte adesso le do io».
La prima ipotesi che viene più facile, a guardare i numeri del Senato, è l’inciucio Pdl-Pd. Facile a dirsi, difficilissimo a farsi. Circolano i nomi di Corrado Passera, come presidente del Consiglio terzo ma di un governo più politico di quello che siede attualmente a Palazzo Chigi. E gira anche la variabile generazionale: un esecutivo, sempre sostenuto da una maggioranza trasversale, a guida Angelino Alfano o Matteo Renzi. «Ma», è la condizione ineludibile che pone Berlusconi per aprire una linea di dialogo con la sinistra, «il primo provvedimento del nuovo governo deve essere la restituzione dell’Imu». Lo deve fare il prossimo esecutivo. Altrimenti, come ha promesso in campagna elettorale, toccherà a lui mettere mano al suo portafoglio.
Il problema è che dall’altra parte si trova senza interlocutori. O con troppi interlocutori, visto che adesso nel Pd proveranno, loro sì, a smacchiare Bersani, additato come il principale responsabile del mancato successo. Per cui il Cavaliere non esclude nessuna possibilità. Neanche quella più hard: proporre un accordo ai grillini su un’agenda di misure per tagliare i costi della politica e riformare le istituzioni. Difficile. Infine c’è il lodo “Biancofiore”, inteso come Michaela, la deputata pidiellina che propone, per scongiurare un ritorno alle urne ravvicinato che favorirebbe Grillo, il ticket «Bersani a Palazzo Chigi e Berlusconi al Quirinale».
Anche l’ex premier pensa a se stesso. Con una battuta: «Vedrai», ha detto a un interlocutore al telefono, «se non mi tocca fare il presidente del Senato...». La seconda carica dello Stato oltretutto lo metterebbe al riparo da altre “aggressioni giudiziarie”. Però, con quei numeri, non è affatto facile.
Se Berlusconi si mantiene sobrio, Alfano già festeggia: «Un risultato molto positivo, direi anche straordinario, del quale siamo molto soddisfatti », dice il segretario del Popolo della libertà. «Ho sentito Berlusconi per ringraziarlo. Aspettiamo con serenità i risultati della Camera». È fallito il tentativo di Monti, Casini e Fini di sovrapporsi al Pdl con l’ambizione di diventare loro gli attori del centrodestra. Invece: «Avevamo indovinato il diminutivo di “centrino” dato alla coalizione di Monti durante la campagna elettorale», sbeffeggia Alfano. Che frena sull’ipotesi di larghe intese con i democratici: «Prima di parlare di instabilità bisogna verificare i risultati: al Senato c’è una coalizione che è arrivata prima ed è quella guidata da Silvio Berlusconi».
Il Cavaliere alla fine non ha voluto infierire sui “nemici” Casini e Fini, in predicato di non tornare a Montecitorio: «È sereno, sta da Dio», rivela il professor Alberto Zangrillo, medico personale. Ma niente champagne: «Lui è una persona buona, non festeggia sui problemi degli altri».


IL CALO PADANO COSTA LA CAMERA AL CENTRODESTRA [La metà dei voti è passata a Grillo penalizzando la coalizione. Colpa delle inchieste, delle lotte intestine e della sfiducia della base. Il leader s’è giocato il partito per una Regione: ora il Carroccio chiede la scossa] –
Le inchieste sui rimborsi elettorali, il matrimonio della figlia pagato con i soldi della Regione, le scope rimaste in soffitta, il rinnovo dell’alleanza con Silvio Berlusconi, i militanti in rivolta contro le liste, il cerchio magico desideroso di vendette contro i barbari sognanti, le frizioni fra lombardi e veneti. Sono queste le principali cause che hanno disarcionato l’Alberto da Giussano. Solo negli anni più bui, dal 1999 al 2001, il Carroccio era un partito marginale. Ma c’era anche un motivo: l’idea secessionista era fallita e Umberto Bossi andava a Belgrado a «trattare» col dittatore Slobodan Milosevic... Poi ci fu la grande risalita fino al boom del 2010, quando i padani conquistarono due governatori: Luca Zaia in Veneto e Roberto Cota in Piemonte. Sono passati appena tre anni, ma sembra un’epoca fa. Il governo di centrodestra è caduto sotto i colpi dello spread, il federalismo fiscale è rimasto bloccato nei cassetti dei ministeri retti dai tecnici e l’opposizione a Monti è stata fiacca. Slogan, proteste e manifestazioni scontate. Poco entusiasmo e voglia solo di ripulirsi, perché la vergogna delle indagini che hanno fatto saltare il «capo» e la sua «family » hanno segnato i militanti. Che non hanno più avuto voglia di ripartire da zero. Serviva una scossa, che però non c’è stata. Maroni ha tergiversato, lanciato Flavio Tosi premier, ipotizzato un «modello Verona» per la Lombardia e le Politiche... ma alla fine si è tornati al classico: alleanza Lega-Pdl, con l’obiettivo di conquistare il Pirellone e creare la macroregione con Veneto e Piemonte per «trattenere il 75% delle tasse» sul territorio. La scommessa della vita: Bobo si è giocato il partito. Se fosse stata una partita a poker sarebbe stato un «all in»: il segretario ha messo sul tavolo tutta la Lega. E se oggi diventerà il successore di Roberto Formigoni avrà vinto la sua partita, calcolata fin nei minimi particolari. E avrà consegnato il Carroccio alla storia: un movimento povero, nato in una stanza di un appartamento in affitto di Varese, che corona il sogno di guidare le tre principali Regioni del Nord. Come dice il proverbio: Parigi val bene una messa. La Lombardia val bene un crollo elettorale: avere il presidente con il 14% (una Regione dove non c’è stato il crollo) è un miracolo. Semmai il dimezzamento dei consensi padani alla Camera è costato la vittoria al centrodestra...
I dati del Senato dovrebbero far Ben sperare l’entourage maroniano. Ma l’incubo del voto disgiunto, propugnato dai centristi e da alcuni grillini, in favore di Umberto Ambrosoli non può lasciar tranquillo l’ex ministro dell’Inter - no. Avrà dormito poco, Bobo. Molto poco. Se dovesse perdere, con il margine di vantaggio che il centrodestra ha al Senato in Lombardia, dovrebbe gettarsi nel lago di Varese. Basterà però un voto in più di «AmbroSola» per dare inizio alle danze. Per creare un fronte del Nord, che potrà fare lobby contro qualsiasi governo romano.
Finita la festa però sarà il momento della grande riflessione: avanti di questo passo la Lega non potrà sperare di riconquistare il Piemonte fra due anni, visto lo scarso 5%. E in Veneto, dove il Carroccio ha preso l’11%, gli alleati azzurri scalceranno, e non poco. Servirà dunque una Lega più forte per non tornare nella marginalità. Il che significa un segretario forte, che recuperi le centinaia di migliaia di voti che sono passati dal Sole delle Alpi alle cinque stelle di Beppe Grillo. Soprattutto in Veneto sarà il momento di fare chiarezza: Luca Zaia e Flavio Tosi non si sono tanto digeriti negli ultimi mesi. E poi, non va dimenticato, che mentre Maroni siglava l’accordo con il Cavaliere, la segreteria della Liga votava di andare da sola. Un bello smacco. Il presidente Zaia e il mitico Giancarlo Gentilini hanno già messo carne al fuoco. In generale è tutta la roccaforte di Treviso che è in ebollizione. «Siamo in presenza di un fortissimo ridimensionamento del nostro movimento e questo è dovuto sicuramente anche all’aspro confronto tra bossiani e maroniani», ammette Giorgio Granello, segretario della Lega Nord nella Marca. «Io l’ho detto subito - ammonisce lo sceriffo - i misfatti del vertice hanno distrutto la Lega, che non sarà più un movimento spalmato in tutta Italia e resterà un partito ai margini, non più decisivo per le sorti del Paese. Lo dico con il cuore che mi sanguina, perché sono un romantico della prima ora, ma purtroppo è così».
Giovedì, sottolinea Zaia, «tireremo le conclusioni analizzando fino in fondo i motivi del risultato e le eventuali responsabilità». «È chiaro che l’alleanza con Berlusconi, se da un lato ci consentirà di governare la Lombardia con Maroni, e quindi sarà valsa la pena da un punto di vista strategico, dal punto di vista delle elezioni politiche ci ha fatto perdere dei consensi », commenta Tosi. Il quale sindaco apre già i due futuri fronti della Lega. «Abbiamo avuto un periodo burrascoso, e ora bisogna riconquistare la fiducia dei cittadini, anche con stabilità e serenità... ma se in Lombardia vinciamo, negli interessi della Lega, sarebbe meglio che Maroni restasse segretario ». E cosa dovrebbe fare il Carroccio a Roma, anche nell’ipotesi di una grande coalizione? «Rifare una legge elettorale, mettendoci insieme qualche cosa di riforme istituzionali e qualcos’altro di più generale e poi si torna a votare». Tosi apre un varco. E il nome per il premier ce l’ha già: Corrado Passera.