Riccardo Staglianò, la Repubblica 24/2/2013, 24 febbraio 2013
FARE CARTE FALSE
[Chiunque sappia un po’ di informatica può scaricare dal web ogni tipo di modello per riprodurre documenti falsi d’alta qualità] –
Noncapita spesso che un giornalista firmi uno studio scientifico assieme all’inventore del web e al papà di Google. Nel caso specifico, per aver messo a punto un algoritmo che facilita l’apprendimento nei corsi online. Diciamo che non capita proprio. Eppure, quando il sottoscritto ha annunciato sul sito di aver scritto un paper con Tim Berners-Lee e Larry Page, un certo numero di persone pur molto sveglie e con uso di mondo ci ha fatto le felicitazioni: «Bravo, non immaginavo!». Grazie, neanch’io. Va detto che il documento era impeccabile. Col suo bell’abstract, quel carattere Times New Roman penitenziale, i grafici a dispersione che fanno subito scienza. Tutto assemblato in automatico da SCIgen, un generatore casuale di testi accademici concepito da alcuni studenti del Massachusetts Institute of Technology.
Non abbiamo fatto del male a nessuno. Volevamo solo provare un argomento, vecchio come la Rete: su Internet nessuno sa che sei un cane, come recitava la celeberrima vignetta del Fa però una certa paura sapere che negli Stati Uniti chiunque possa comprare armi automatiche, alla faccia di eventuali condanne penali, con patenti farlocche. O che in Cina un signorotto locale possa acquistare quaranta appartamenti che non gli sarebbero spettati con l’aiuto di centonovantadue documenti taroccati. O che una signora inglese eserciti la professione legale (ma poteva essere medica) a New York grazie a titoli “photoshoppati”.
L’industria dei documenti falsi è entrata nella globalizzazione dalla porta del web. E non stiamo parlando di semplici politici rimpinguati da un paio di lauree o master mai conseguiti. Prima, se volevi un passaporto contraffatto, dovevi cercarlo in periferie dimenticate, in piccoli antri loschi e mal illuminati. Era uno spaccio artigianale. Solo per esigenze di drammatizzazione, nel thriller Russell Crowe, che organizza tutto il suo piano via Rete, affronta una scazzottata per andare a ritirare dal vivo la merce. Più coerentemente, avrebbe potuto ordinare dal computer di casa e ricevere i documenti via posta. Così fan tutti, o almeno sempre di più.
Si comincia presto. Il diciassette per cento delle matricole e il trentadue per cento degli studenti degli anni successivi, stando a uno studio del 2009 sugli atenei statunitensi pubblicato di recente dall’Economist, possederebbero un qualche documento falso. Utile più che altro per aggirare il divieto di consumare alcolici prima dei ventun’anni. Però, una volta che puoi dimostrare di essere un altro, magari ti vengono in mente ulteriori possibilità. I numeri, garantiscono gli esperti, sono nel frattempo cresciuti. E i bar vicini ai campus hanno preso l’abitudine di chiedere due diversi documenti di identificazione.
In Cina sono più laschi sui controlli per l’età etilica, molto meno per farti entrare in un Internet cafè. Per rimediare o si cerca un pusher dalle parti dell’entrata orientale dell’università Remnin di Pechino, oppure si chiede in Rete. C’è un sito apparentemente inglese, dall’indirizzo piuttosto esplicito (La mia falsa identità) dove una patente internazionale vale venti sterline e una che attesta che siete studenti (utile, ad esempio, al fine di ottenere sconti ai musei o sui mezzi di trasporto) soltanto dieci. A valutare dalle immagini, sembrano ben fatte. Da una rassegna più ampia però si capisce che questa è la fascia low cost. A per dire, un passaporto americano va sui seicento dollari. Come con le borse di Louis Vuitton in vendita su Alibaba.com, si va da una fino a sette stelle di valutazione. Se vuoi gli ologrammi, le microstampe, i codici a barre di ultima generazione devi pagare. Lo conferma, sempre al settimanale britannico, il direttore di un’unità anticontraffazione pubblica in Florida, David C. Myers: «Dieci anni fa una buon ID falso poteva essere comprato dai 35 ai 50 dollari. Adesso si deve essere pronti a spenderne dieci volte di più». Per contenere i rincari, come ogni manifattura che si rispetti, si è delocalizzato in Asia: costo del lavoro incommensurabilmente inferiore e rintracciabilità dei falsari aleatoria. Tutto ciò che si vede all’esterno è una home page, magari con un suffisso telematico delle Isole Cocos, che rimanda a un laboratorio nello Guangdong. Fbi, prova a prenderli.
Non c’è neppure bisogno di puntare direttamente al bersaglio alto, tipo passaporto o carta d’identità. Puoi fare come Thomas W. Seitz, scoperto dall’investigatore Myers. «Chiunque abbia qualche competenza informatica» ha testimoniato davanti a una commissione d’inchiesta del Senato anni fa «può scaricare dal web ogni tipo di modulo per riprodurre dei documenti d’identità falsi d’alta qualità». Lui ne aveva modificato uno preso dal sito del fisco e con quello si era presentato alla motorizzazione del New Jersey. «Con il documento d’identità che mi avevano rilasciato sono riuscito a farmi dare un mutuo per comprare l’auto più cara del concessionario». Alla fine l’hanno beccato e si è fatto qualche anno di galera. Forse la hubris l’ha rovinato. A quei tempi un cyber-falsario aveva confessato a Myers un fatturato di oltre un milione di dollari. Il giro d’affari è senz’altro cresciuto, giurano gli esperti. Se chiedete a Google «fake ID» vi dà più di tre milioni di risposte. C’è l’imbarazzo della scelta. Il Robert Redford accusato di omicidio in La regola del silenzio riesce a darsi con successo alla macchia per tutto il film soprattutto grazie alle diverse carte d’identità che sfoggia. A memoria, almeno tre. Ognuno, in qualche momento della vita, preferirebbe essere qualcun altro. C’è chi fa carte false per diventarlo. E si salva.