Emilio Marrese, la Repubblica 24/2/2013, 24 febbraio 2013
ROSA TOMEI LA DONNA DI TRILUSSA
[Vissero in simbiosi per oltre vent’anni Lei non era soltanto la devota governante del poeta romano ma il suo alter ego, il suo filtro col mondo “L’ho amato tanto, ma di un amore puro” confessò alla fine dei suoi giorni Da analfabeta era diventata poetessa] –
La signoranon aveva nemmeno cinquant’anni, ma ne dimostrava già troppi di più. Minuta e seminferma stava cercando faticosamente di mettersi a sedere nel suo letto d’ospedale. La ragazza, una studentessa in Lettere che nel tempo libero faceva volontariato al Policlinico romano, la notò arrancare e le andò in soccorso. «Questo è vivere pericolosamente» si schernì l’anziana. Chiacchierarono un po’ e, nei giorni successivi, la ragazza prese a farle visita sempre più spesso. Non c’era nessun altro che andasse a trovarla. «No, non ho nessuno. Sono sola, è finito tutto. Ho amato molto qualcuno, che non c’è più, ma di un amore puro» le confessò la donna. Solo alcune settimane dopo la giovane Enrica Schettini Piazza, che sarebbe poi diventata responsabile dei testi storici dell’Accademia dei Lincei, venne a sapere che quella stramba degente era stata, come le dissero con tono dispregiativo gli infermieri, «la serva di Trilussa», morto dodici anni prima, nel ’50: Rosa Tomei. Per ringraziarla dell’amicizia e della compagnia, prima delle dimissioni, la Tomei le aveva affidato uno scartafaccio di fogli leggeri battuti a macchina: «Una cosa pe’ te la posso fa’: queste so’ le mie poesie, si so’ bbone le pubblicheranno». Erano bbone, ma fino a oggi sono rimaste dentro un cassetto.
Rosa Tomei — morta infine nel 1966, sola e paralitica quattro anni dopo quell’incontro — è stata una figura fondamentale quanto misteriosa nella vita di Trilussa. Governante, segretaria, perpetua, fantesca, cuoca, infermiera, complice, alter ego, allieva: ma, si presume, nulla di più, condannata all’«amore puro». La sua devozione per il pigmalione non fu mai ricambiata, tanto meno sul profilo economico: non le pagò mai un salario né le lasciò nulla. «Nun t’ho manco sistemata...» si scusò il poeta romanesco sul letto di morte. E cinque anni più tardi Rosa fu sfrattata dalla casa di via Maria Adelaide, vicino a piazza del Popolo, dove per ventun’anni aveva servito er sor padrone, come lo chiamava. Imparando, divertendosi e soffrendo in silenzio.
Rosa, diminutivo di Rosaria scelto dal poeta, era salita tredicenne dalla Ciociaria: rozza e analfabeta, ma già parecchio svelta di cervello. Arguta, forte e spiritosa aveva saputo rapidamente conquistarsi la fiducia di Trilussa fino a diventarne il punto di riferimento indispensabile di una vita. Non solo curava la casa e i gatti Pomponio, Poppea e Ajo’, ma arrivò presto a scegliere personalmentel’abbigliamento del sor padrone, tenerne la corrispondenza, scrivere addirittura sonetti apocrifi e firmare autografi in vece sua da scambiare con generi alimentari in tempi di guerra. Divenne il suo filtro col mondo, intrattenendo gli ospiti graditi e sbarazzandosi degli altri, tollerando paziente le sempre più rare incursioni femminili di soubrette e belle dame irretite dal poeta, per proteggerne infine l’isolamento forzato dalla malattia degli ultimi anni. Rosa non era certo avvenente, anche se nel film tv della Rai (in onda il 10 e 11 marzo) le verrà riconosciuta l’incoerente bellezza di Monica Guerritore, accanto a Michele Placido nei panni di Trilussa.
Non solo Rosa aveva imparato in fretta a leggere e scrivere, mandando a memoria tutti i versi del suo mentore (con titoli e data di pubblicazione) anche per recitarli ai ricevimenti, ma ella stessa s’era dedicata a comporre sonetti in stile simile. «Sei venuta anarfabbèta e mo’ pure la poetessa voi fa’...» la canzonava lui. La sua passione da bambina, in verità, era il canto e, appena giunta nella capitale dal paesino di Cori in provincia di Latina, si esibiva intonando stornelli insieme ai suonatori ambulanti nella trattoria degli zii al quartiere Flaminio: il padre Romualdo aveva brigato per farle conoscere Petrolini, affinché fosse il grande attore ad assumerla, e proprio Trilussa, abituale avventore dell’osteria, avrebbe dovuto fare da tramite. Ma, dopo qualche mese di apprendistato a casa sua, lo scrittore si convinse che Petrolini avrebbe dovuto cercarsi un’altra domestica: «Io de qua nun me movo».
Dopo la morte di Trilussa, Rosa si batté invano per conservarne la memoria, ma non riuscì a fare dell’abitazione un museo come avrebbe voluto, nonostante il sostegno di molti esponenti della cultura romana. Un caustico sonetto lo dedicò all’allora sindaco Rebecchini, colpevole di aver assegnato a Trilussa una tomba del Verano non consona: “Perché li pezzi grossi nun li tocchi, ma li salamelecchi co’ l’inchini? Te porto un bon’esempio: er mi padrone, che pe’ fa’ sordi nun ciaveva pratica, chi lo chiamò poeta e chi fregnone; insomma, senza tanta matematica, volevo ditte questo in concrusione: poteva avé un palazzo e cià ‘na chiavica”.
Struggenti e teneri i versetti rivelatori che Rosa componeva per Trilussa, densi del rimpianto per una vita solo sognata: “Nessuno saprà mai come dentro la testa t’ho creato; de che colore, io, t’ho fatto l’occhi, er nome che t’ho dato, fijo che nun sei nato (...) T’ho raccontato mille e mille favole piene de fantasia; t’ho fatto volé bene a tante cose: a l’omini, a li fiori, a la poesia e a tutto quanto quello ch’ho sognato e nun ho mai trovato”.
Il rapporto tra il maestro e la sua vestale era quasi di tipo coniugale, riferiscono, nella confidenza e anche nel battibeccare. Rimasta senza padrone, né amore né casa si arrangiò facendosi ospitare da conoscenti qua e là, magari in cambio di qualche poesiola. Frequentava spesso una trattoria di via dei Serpenti, dove si radunavano i cosiddetti poeti romanisti. Se ne andò appena cinquantenne in una stanza del San Camillo. Chissà se poi sia riuscita nel suo intento, altrove.