Pietro Citati, Corriere della Sera 26/02/2013, 26 febbraio 2013
PAOLO DIACONO, IN VIAGGIO A SUD DALL’ORLO OSCURO DEL MAELSTROM
Paolo Diacono nacque a Cividale, tra il 720 e il 730, da una famiglia nobile emigrata nel Friuli nei primi tempi della occupazione longobarda. Qualche anno dopo l’emigrazione, il trisavolo di Paolo, Leupchis, fu fatto prigioniero con tutta la famiglia da un’orda di Avari che espugnarono e incendiarono il castello di Cividale. Lui fu passato a fil di spada: mentre la moglie e i cinque figli, ancora bambini, vennero venduti schiavi nella terra degli Avari, sopportando a lungo la terribile miseria della prigionia.
Passarono molti anni. Mentre quattro fratelli rimasero schiavi, il bisnonno di Paolo, Lopichis, ispirato — scrive il nipote — dal Padre della Misericordia, decise di tornare in Italia, ritrovando la pienezza della libertà. Prese la fuga: aveva con sé l’arco, la faretra, e pochissimo cibo. Non conosceva la strada: ma un lupo — miracoloso come i lupi di Paolo — gli si avvicinò e diventò suo compagno di viaggio. Poiché gli camminava davanti e si voltava spesso a guardare dietro di sé e si fermava se lui si fermava, e lo precedeva se lui camminava, Lopichis si convinse che gli era stato mandato in soccorso dal cielo. Dopo qualche giorno, il poco pane venne a mancare. Indebolito dalla fame, disperando ormai della vita, si gettò a terra e si addormentò. Nel sonno un uomo gli disse: «Alzati! Perché dormi? Prendi il cammino dalla parte verso la quale tieni rivolti i piedi. Là sta l’Italia».
Lopichis si scosse dal sonno, ricordò la voce, e si mosse verso la direzione indicata. Quando arrivò a una casa abitata da Slavi, una vecchia si impietosì di lui: lo nascose; e gli diede del cibo un poco alla volta, nutrendolo con saggia misura, fino a quando Lopichis recuperò le forze. Riprese il viaggio: entrò in Italia e giunse a Cividale, nella casa dove era nato. Era vuota e abbandonata: non aveva più tetto, ed era piena di rovi e di spini. Lopichis tagliò i rovi; e tra le pareti trovò un grande frassino, al quale appese la sua faretra. Aiutato da parenti e amici, riedificò la casa, prese moglie, ebbe un figlio, Arechi, che a sua volta generò Warnefrit, il quale generò Paolo, che era destinato a raccontare i viaggi, le vittorie, la gloria, la sconfitta dei suoi amatissimi Longobardi.
Paolo entrò in rapporto con la corte dei duchi di Cividale e poi con la corte regia di Pavia. Lì si sviluppò la sua cultura. Studiò grammatica, ebbe qualche preparazione giuridica, forse studiò greco; e raggiunse una eccellente padronanza del latino scritto, che insegnò con successo, mentre leggeva l’Eneide e molti testi storiografici e scientifici dell’età imperiale e cristiana, e scriveva carmi, epitaffi e, più tardi, una Historia romana. A Pavia, sotto l’impulso del re Ratchis, si rivolse agli studi sacri, sebbene continuasse a coltivare la storia. Aveva legami con la corte dei Longobardi di Benevento, specie con la duchessa di Adelberga. Prima del 774, si fece monaco a Montecassino: ma le ricchezze e le grazie dei potenti e dei grandi della terra continuarono ad attrarlo.
Nel 782, si rivolse a Carlo, re dei Franchi e ormai dei Longobardi, chiedendogli la liberazione del fratello Arechi, prigioniero in Francia. Carlo lo invitò alla sua corte, dove rimase tre anni, componendo epitaffi, un Homiliarium, l’Epitome di Festo e i Gesta dei vescovi di Metz, dove abbozzò un primo scorcio sulla fine del regno longobardo. I suoi sentimenti verso Carlo Magno, il vincitore della sua gente, erano divisi: ma non ignorava gli errori che portarono al disastro, nel 774, Desiderio, l’ultimo re dei Longobardi. Nel 786 o 787, tornò a Cassino, dove scrisse uno dei capolavori della storiografia medioevale, la Historia Langobardorum (a cura di Lidia Capo, Fondazione Lorenzo Valla, Mondadori, pp. L-648, 30). Morì non sappiamo quando, ma certo in uno degli ultimi anni dell’ottavo secolo.
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Quello che amo sopratutto, nella Storia dei Longobardi, è il vastissimo sfondo geografico. Forse Paolo Diacono aveva l’ambizione di emulare Plinio, che ricordò proprio all’inizio della sua Storia. Quando i Longobardi lasciarono la loro patria — l’isola settentrionale di Scania, ovvero la Scandinavia — incontrarono e attraversarono, muovendo verso Sud, il Rügen, il Meclemburgo, il Luneburgo, il Burgundaib, il Bainaib, l’Anthaib, il Rugiland, il Feld, la Pannonia, combattendo o alleandosi con le popolazioni barbariche di quelle regioni, di cui Paolo Diacono annotava rapidamente i costumi e le battaglie.
L’isola di Scania, da cui muovono i Longobardi, «più che posta in mezzo al mare, è avvolta dalle onde, che la accerchiano a causa della bassezza delle coste». Gli Scritobini, i Lapponi, scrive Paolo, «vivono in luoghi dove la neve cade anche d’estate, e si nutrono — non dissimili per condotta dalle fiere — di carni crude di animali selvatici, le cui pelli ispide usano anche per fabbricarsi gli indumenti. A grandi balzi raggiungono le fiere con una loro arte, per mezzo di legni ricurvi simili ad archi». Paolo Diacono ammirava lo splendore ininterrotto del solstizio d’estate, e le ombre lunghissime del solstizio d’inverno, quando il sole è sempre invisibile. Amava sopratutto il cosiddetto «ombilico del mare»: probabilmente il Maelström nelle isole Lofoten presso la costa settentrionale della Norvegia, che paragonava alla Cariddi dell’Eneide. Due volte al giorno, una profonda voragine inghiotte le acque, e poi le rivomita fuori: le onde avanzano e si ritirano con una grandissima velocità lungo le coste. Spesso le navi vengono attratte vertiginosamente dalle voragini, rapide come frecce, e periscono in quel baratro. Talora, quando stanno per essere sommerse, vengono risospinte indietro da improvvise masse d’acqua e trasportate lontano con la stessa velocità con cui erano state attratte.
Quando fu alla corte di Carlo Magno, un gentiluomo franco gli raccontò che, al largo della Normandia, c’era un’altra Cariddi. «Alcune navi, sconvolte dalla tempesta, furono divorate da questa Cariddi — raccontò il gentiluomo —. Uno solo di tutti gli uomini che si trovavano su quelle navi, mentre gli altri morivano ed egli respirando ancora cercava di reggersi a galla sulle onde, fu trascinato dalla violenza delle acque in un risucchio, e giunse fino sull’orlo del terribile baratro. Ormai guardava in quel caos profondissimo che si apriva senza fine, e già morto per il terrore si aspettava di rovinarvi dentro, quando all’improvviso — cosa che non poteva sperare — si fermò, gettato contro uno scoglio: precipitate dentro tutte le acque che dovevano essere inghiottite, erano rimasti a nudo i margini della fossa. E, mentre stava lì tra tante angustie, ansioso, respirando a stento per la paura, e ancora si aspettava la morte, appena differita d’un poco, ecco che vide quasi delle montagne d’acqua risalire dal profondo, e davanti riemergere le navi che erano state risucchiate. E quando una di esse gli passò accanto, egli le si afferrò con tutto lo slancio possibile; e subito, portato con celere volo vicino a terra, sfuggì a una morte spaventosa». Quale singolare impressione, in questa mirabile pagina: quasi l’avesse scritta un Poe o un Melville barbarico, disceso in Italia dai mari della Scandinavia.
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Nei libri che compulsava e leggeva amorosamente, Paolo Diacono aveva trovato l’immagine di ciò che il suo popolo aveva contribuito a distruggere: la vastità, l’organizzazione, l’autorità, l’unità del Papato e dell’Impero. Ora, mentre scriveva a Cassino la Storia dei Longobardi, esaltava quei modelli: l’Impero bizantino di Giustiniano, che culminava trionfalmente nella Basilica di Santa Sofia; le Pandette, le Istituzioni, quella somma di sapere giuridico che l’aveva nutrito; Narsete, «cartulario imperiale, generosissimo verso i poveri, fervente nelle orazioni e nelle veglie»; il grande papa Gregorio Magno, che aveva convertito gli Angli; e san Benedetto, il fondatore di Monte Cassino, «quella bocca venerabile e più dolce di ogni nettare, con gli occhi che sempre guardavano le cose celesti».
Mentre contemplava quegli altissimi esempi di pietà religiosa e politica, cercava tra i suoi Longobardi qualcosa di simile. Non so se mosso da convinzione o illusione, lo scoprì: il re Liutprando, «uomo di molta saggezza, accorto nel consiglio, di grande pietà e amante della pace, fortissimo in guerra, clemente verso i colpevoli, casto, virtuoso, instancabile nel pregare, degno di essere paragonato a un filosofo, creatore di leggi». Poi travedeva: scorgeva nei primi secoli longobardi una specie di immaginaria età dell’oro — niente violenze, né insidie, oppressioni, rapine, timori —.
Come li amava, i suoi Longobardi: alti, coi capelli biondi e lunghissimi, divisi da una riga a metà della fronte, con gli abiti di lino, ornati di ampie balze di vari colori. Ma non erano giusti né santi, come qualche volta raccontava: li amava proprio perché erano violenti, guerrieri, furibondi, crudeli, veloci, e trasudavano ancora la barbarie che avevano portato con sé dalla Scandinavia attraverso tutti i popoli d’Europa. Quando raccontava le loro guerre e violenze, la sua penna si impennava e si esaltava di un furore sanguinario, violando la sua quiete di studioso e di erudito. «I Longobardi riuscirono vincitori e con tanta violenza infierirono sui Gepidi, che li massacrarono tutti, e di un così numeroso esercito a stento sopravvisse un uomo per riferire la strage». «L’Italia fu per la massima parte presa e soggiogata dai Longobardi, dopo che questi ebbero spogliato le chiese, ucciso i sacerdoti, rovinato le città e decimato le popolazioni». Le parole distruggere, uccidere, devastare, annientare, radere al suolo suscitavano una specie di sinistra e innocente festosità nel suo stile.
Sembrava che la oscura e misteriosa natura collaborasse con i disastri e i massacri degli uomini. Ecco diluvi, temporali, incendi, inondazioni, carestie, cavallette, segni di sangue nel cielo, luci fantastiche, geli innaturali, topi che divoravano le messi, tuoni, fulmini, comete, eclissi, una strana stella dalla luce pallidissima e velata nella notte serena. Chiamarli «fenomeni naturali» sembra impreciso: perché ogni volta che la natura offendeva sé stessa, Paolo Diacono sentiva all’opera una strana forza sacra, o quasi sacra.
Tutta questa orchestrazione sinistra culmina in una bellissima pagina, dove Paolo Diacono descrive una pestilenza che colpì sopratutto la Liguria. «All’improvviso apparvero sulle case, sulle porte, sul vasellame certi segni che, a volerli togliere, si facevano sempre più evidenti. Passato un anno, cominciavano a formarsi nell’inguine degli uomini e in altre parti delicate ghiandole grosse come una noce o un dattero, alle quali seguiva una febbre intollerabilmente alta, tale che in tre giorni l’uomo moriva. Dappertutto era lutto, dappertutto lacrime. Poiché si sparse la voce che fuggendo si poteva scampare al flagello, le case venivano abbandonate dagli abitanti. Solo i cani restavano a fare guardia. Le greggi rimanevano da sole nei pascoli, senza più pastore. Le tenute e i castelli pieni di folle di uomini, il giorno dopo, fuggiti tutti, apparivano immersi in un silenzio assoluto. Fuggivano i figli, lasciando insepolti i cadaveri dei genitori; i genitori, dimenticati la pietà e l’amore, abbandonavano i figli in preda alla febbre. E se qualcuno per caso era spinto dall’antico senso di carità a voler seppellire il suo prossimo, restava egli stesso insepolto. Il mondo era riportato all’antico silenzio: nessuna voce nelle campagne, nessun fischio di pastori, nessun agguato degli animali da preda. Di notte e di giorno risuonava una tromba da guerra, e molti sentivano come il rumoreggiare di un esercito. Non c’era traccia di uomini per le strade, non si vedeva nessuno che ferisse, eppure i cadaveri dei morti giacevano a perdita d’occhio».
Di rado la morte era stata rappresentata così grandiosamente, nella sua desolazione e nella vastità della sua eco.
Pietro Citati