Fancesco Manacorda, La Stampa 26/22013, 26 febbraio 2013
QUELL’ ITALIA CHE HA DETTO NO ALLA MONETA
Più della metà degli italiani che sono andati alle urne ha votato - anche - contro l’euro. Lo ha fatto scegliendo Grillo, che ha tra i punti del suo programma un referendum (oggi impossibile) sull’uscita dalla moneta unica; o affidandosi a quel Berlusconi che in campagna elettorale (e anche prima per la verità), e pur avendo firmato il «fiscal compact» che obbliga l’Italia al rispetto di severe regole di bilancio pubblico, ha evocato l’addio all’euro come una circostanza necessaria di fronte a quello che considera lo strapotere della Germania. E più della metà degli italiani - agli elettori di Grillo e Berlusconi si possono affiancare anche quelli di Vendola e di Ingroia - ha detto no all’austerità di stampo europeo, sottoscrivendo programmi, e soprattutto promesse, elettorali semplicemente incompatibili con i vincoli di bilancio comunitari. Al tempo stesso il partito dell’ortodossia di bilancio comunitaria, impersonificato da Monti, ha subìto un secco verdetto: solo un elettore su dieci è disposto a percorrere quella strada.
Se a questo dato si affianca il sigillo dell’ingovernabilità sancito dai risultati del Senato appare ovvio che la reazione dei partner europei e degli investitori internazionali all’esito delle elezioni italiane sia di estrema preoccupazione. I segnali arrivati nella confusa giornata elettorale sono già di per sé assai significativi: lo spread tra i Btp decennali e i Bund tedeschi, massimo indicatore della nostra affidabilità rispetto al campione tedesco di categoria, prima scende sotto quota 260 quando sembra che ci sia una maggioranza salda per governare il Paese, poi sale oltre quota 300 e chiude infine sopra i 290 punti mentre il mercato chiude sempre meno sicuro che quella maggioranza ci sia. E un andamento simile grande ripresa e brusca discesa, mentre sfumano le certezze sulla stabilità politica - ha l’indice di Piazza Affari, mentre addirittura il Dow Jones americano perde terreno per i timori sul nostro Paese. Per oggi le previsioni prevedono tempesta sui nostri mercati.
La preoccupazione, infatti, non riguarda adesso solo la sorte dell’Italia «in coma», come l’ha dipinta nel suo documentario l’ex direttore dell’Economist Bill Emmott, ma coinvolge l’intera area dell’euro. Se l’Italia peggiora, è la diagnosi istantanea fatta ieri a Bruxelles, come a Londra e a New York, può contagiare tutta l’economia continentale e soprattutto può propagare il virus della sfiducia nei suoi titoli di Stato ai partner dell’euro. Dunque non è una sindrome greca, quella che rischia l’Italia. Ma è qualcosa di ben peggiore, proprio per le dimensioni della nostra economia - la terza della zona euro - e per la massa del terzo debito pubblico al mondo, è una crisi che potrebbe mettere a repentaglio l’esistenza stessa dell’euro. Proprio nei giorni scorsi, svelando per la prima volta l’ammontare dei suoi acquisti di titoli di Stato tra fine 2011 e inizio 2012, attraverso il programma Smp, la Bce ha rivelato che dei 218 miliardi di euro complessivi ben 103 miliardi, cioè quasi la metà del totale, erano in titoli italiani. Adesso sono in molti a scommettere che Roma, magari ancora in questa fase con Monti premier, debba ricorrere al nuovo programma di riacquisto di titoli Omt per far fronte a un nuovo rialzo degli spread che viene dato quasi per certo. E proprio appesantita dal risultato italiano la moneta unica è scesa ieri sotto quota 1,32 sul dollaro, ai minimi da sei settimane. Una boccata di sollievo solo apparente, nella guerra delle valute che vede l’euro troppo forte rispetto a dollaro e yen, ma in realtà l’ennesimo segnale di sfiducia dei mercati sul futuro della moneta unica.
Con un governo che - a patto che si formi - non avrà di certo la forza per proporre e attuare riforme incisive su capitoli fondamentali come spesa pubblica, produttività e lavoro, la strada dell’Italia appare tutta in salita. I partner europei, con la Germania che voterà anch’essa a settembre, non vorranno e non potranno fare sconti a Roma. E il prevedibile rialzo dei tassi dei Btp verso il 5%, lungi dall’attirare capitali in Italia, rischia di suonare come il campanello d’allarme che potrebbe innescare una nuova fuga di capitali. Al voto degli elettori, ormai cristallizzato nelle urne, si contrapporrà quello degli investitori che votano «con i piedi», uscendo da quei mercati e da quei Paesi che offrono più rischi che opportunità.