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 2013  febbraio 24 Domenica calendario

NELLE SEGRETE STANZE DI D’ANNUNZIO [

La biografia del poeta scritta da Giordano Bruno Guerri si concentra sugli anni vissuti al Vittoriale (1921-1938). Un tempio di lussuria e voluttà, tra droghe, profumi, letteratura e donne al suo servizio o che gli si negarono] –
«D’Annunzio è stato presentato come un pazzo, come un istrione, come un nemico della patria, come un seminatore di guerra civile, come un nemico di ogni legge umana e civile», scriveva Antonio Gramsci nel 1921. In quegli anni torbidi, molti, da destra e da sinistra, si rivolgevano a lui alla ricerca di una guida in grado di salvare l’Italia. Ancora nel 1923, Ernest Hemingway s’illudeva: «In Italia sorgerà una nuova opposizione e sarà guidata da quel rodomonte vecchio e calvo, forse un po’ matto, ma profondamente sincero e divinamente coraggioso, che è Gabriele d’Annunzio». Fu una delusione. Il Vate si era limitato a rifiutarsi di ricevere Grasmsci o i gerarchi fascisti, «demagoghi che credono di aderire alla realtà e non aderiscono se non alla loro camicia sordida». Si era divertito a flirtare con l’inviato dei Soviet, Cicerin, o a umiliare Mussolini, in visita al Vittoriale. «Secondo te – gli aveva chiesto – qual è l’equivalente italiano della parola bidet?» Poi aveva elencato al demagogo imbarazzato una serie di possibili versioni italiane, da "bidetto" o "bagnarola", consultandolo continuamente, prima del l’affondo finale, quando aveva chiesto a Benito come lo chiamavano in Romagna e l’altro, arrossendo, era stato costretto a rispondere che da loro il bidet non c’era.
Troppo assorbito dai suoi piaceri, il Vate si oppose sempre a «quel pagliaccio feroce» di Hitler, ma non si impegnò mai. Stava componendo il suo capolavoro a Gardone. Il Vittoriale è veramente un «libro di pietre vive», sfondo minuziosamente costruito «dell’uomo eccezionale che non seppe e non volle essere comune neanche nelle minime, solitamente ordinarie e prosaiche, necessità del l’esistenza» scrive l’esperto Giordano Bruno Guerri, presidente del Vittoriale in un libro rigoroso e appassionato, basato su nuove testimonianze.
Ben più di Wilde, D’Annunzio aveva messo il suo ingegno nelle sue opere e il suo genio nella vita. Nel mondo del Vate un ninnolo era più importante di un proclama urgente. «L’espressione è il mio unico modo di vivere. Esprimermi, esprimere è vivere». Nel fastoso arredamento del Vittoriale, il valore degli oggetti non dipende dal prezzo o dalla rarità, ma dal loro ruolo nella coreografia del padrone di casa. Ognuno degli oggetti, dai vetri iridescenti di Murano ai calchi dei capolavori, è equidistante, al di là del suo valore dall’ego che l’ha scelto per il proprio esclusivo piacere. Nell’horror vacui che domina il Vittoriale, persino l’aeroplano del volo di Vienna si tramuta in bibelot.
La maestosa tartaruga che troneggia nella sontuosa sala da pranzo detta della Cheli, tartaruga in greco, gli era stata donata dalla marchesa Casati ed era morta, si diceva, per un’indigestione di tuberose. Ma quel guscio, completato dalla scultura in bronzo di Renato Brozzi, oggi replicata in piccolo da Buccellati, era ancheuna citazione della tartaruga incastonata di pietre preziose della bibbia del decadentismo, À rebours di Joris-Karl Huysmans. Del resto già allora Buccellati aveva creato la tartarughina d’oro, regalata dal Vate al leggendario pilota da corsa Tazio Nuvolari, «all’uomo più veloce, l’animale più lento».
D’Annunzio non era bello, ma come resistere a quello che Duncan definiva «un amante così grande da trasformare la donna più ordinaria e darle per un momento l’apparenza di un essere celeste?» Per colui che si definiva «un animale di lusso» era sempre pronto uno sfarzoso guardaroba: duecento camicie di seta da giorno, quasi cinquanta capelli, circa duecento paia di scarpe e di stivali, almeno trecento paia di calzini, una cinquantina di pigiami di seta e altrettante vestaglie a saio, come quelle di Balzac.
Chi, come le sue amanti, entrava in quel teatro decadente doveva assumere i panni adatti alla scena. Per quelle deliziose comparse erano previsti abiti provocantemente evanescenti, disegnati dal Vate, che le tramutavano in falene dorate, pronte a bruciarsi devotamente le ali alla sua fiamma. Solo la sinuosa, fatale pittrice Tamara de Lempicka riuscì a sgusciare dalle braccia del celebre satiro. Al primo incontro il Vate la coprì di doni, ma lei accettò solo delle calze di seta. D’Annunzio si proponeva di non precipitare le cose, anche perché non voleva farsi sfuggire l’occasione di farsi fare un ritratto. Seguirono dieci giorni di schermaglie e concessioni parziali. Il poeta gustava «i suoi baci profondi, il modo in cui si faceva baciare sotto le ascelle». Ma, dopo averlo coperto di impronte rosse di rossetto, l’artista lo respinse con la scusa di temere la sifilide. Malgrado la pioggia di regali, Tamara rimaneva sfuggente. Prima si protestava casta, poi ammetteva il contrario. Quando il poeta disorientato aveva tentato l’ultima carta, spogliandosi davanti a lei, si era voltata disgustata. «Lei non è altro che una perfetta cocotte e non una signora» aveva replicato l’altro, esasperato indignato.
Era sempre lui a stancarsi delle donne più belle e ardenti. Come nel caso, racconta Guerri, dell’incantevole Consuelo, futura moglie di Saint-Exupéry, «una giovane barbara che co’ suoi balzi di lupa cerviera mette in continuo pericolo le mie cose preziose che amo tanto». In realtà il seduttore voleva rimanere non solo protagonista, ma anche regista della sua vita. Amava i rapporti a tre, ma non sopportava che Consuelo corteggiasse sfacciatamente le sue donne, arrivando a mordere le labbra della devota Aelis, indispensabile amante, cameriera e ruffiana.
Gabriele aveva l’abitudine di cambiare loro perfino il nome e a volte il cognome come nel caso della bellissima attrice abruzzese da lui ribattezzata Elena Sangro, dal nome del principale fiume della regione. Per lei Gabriele scrisse i suoi ultimi versi – «Elena, il tuo madore è una rugiada / stillante sopra uno stillante miele» – salvo poi accusarla di praticare «sempre gli stessi inginocchiamenti» e di essere solo avida di denaro.
La sola di cui parlava con un riguardo pieno di meraviglia era «l’unica donna che mi ha sbalordito», la marchesa Casati. Luisa si concesse a D’Annunzio, ma non ne fu mai succube, piuttosto una collega nell’arte di affascinare la propria epoca. La «piccola amica dorata» era la pittrice, la scultrice e la commediografa di se stessa, nell’intento di abbagliare i contemporanei che, da Boldini a Van Dongen, da Bakst a Man Ray, da Cocteau e Beaton si inchinavano a quell’opera d’arte capace di usare un boa come una sciarpa o di stare nuda in giardino, replicando severamente ai detrattori: «La verità è nuda!»
Con lei Gabriele condivideva il gusto della "mattonella di Persia", come chiamava la cocaina che illuminava i loro incontri. Il seduttore non si separava mai dalla scatolina d’oro «dove brilla la polvere» bianca che esaltava la sua sensualità regalandogli l’illusione di un’effimera gioventù. A settantanni, «dopo ventiquattrore di orgia possente e perversa», dormiva come un bambino e, dopo uno spuntino e un «bicchierino di menta Get», fumava soddisfatto una delle sue sigarette Abdulla n.11.
D’Annunzio esigeva che i corpi fossero avvolti di profumi. «I profumi rischiarano l’orgia come in antico la rischiaravano le fiaccole». Munificamente omaggiato da Coty, il celebre fabbricante di profumi, se ne faceva preparare espressamente su sua indicazione. Agli eletti il Vate mostrava, estraendola da un cofano scolpito, la sua collezione di essenze, dall’olio di rose di Lucrezia Borgia alla boccetta di profumo di Machiavelli. Eppure l’Aqua Nuntia, da lui inventata su ricette del Quattrocento, chiusa in flaconi medievaleggianti, sigillati con ceralacca, fu un fallimento commerciale.
L’algida Ida Rubinstein rimase totalmente soggiogata dall’artista che, volendo quel corpo emaciato ed androgino per il suo San Sebastiano, si era avventato su di lei dopo uno spettacolo. «Con la solita temerarietà, vedendo da vicino le meravigliose gambe nude, mi getto a terra e bacio i piedi, salgo su pel fasolo alle ginocchia, e su per la coscia fino all’inguine, con il labbro abile e fuggevole dell’aulete che scorre sul doppio flauto. Alzo gli occhi, vedo il volto di Cleopatra, sotto la grande capigliatura azzurra, chino verso di me con una bocca abbagliante».
Ma fu pronto a tradirla, non solo nella vita, cosa che a Ida non importava, ma anche sul palcoscenico. Come fece del resto con l’amatissima e traditissima Eleonora Duse, cui aveva a volte preferito la più celebre Sarah Bernhardt, malgrado avesse rifiutato le sue avances. Quattro anni prima che D’Annunzio morisse, Enrichetta, la figlia della Duse, venne a trovarlo. Era una delle rare donne che cedevano a un invito e non alla vanità di incontrarsi con quella celebrità. Il poeta voleva vederla perché una sera aveva incontrato lo spettro dell’attrice e ne era rimasto profondamente turbato.
Enrichetta traversò quella fuga di stanze che «a Lucifero sarebbe piaciuto avere sulla terra» dietro la duplice protezione di un messale e di una bottiglia di acqua benedetta. Bigotta, ma concreta, vedendo «la camera dell’apparizione» pensò subito che, con la vista precaria dell’unico occhio rimasto al poeta, «certe luci avessero dato vita a forme spettrali». Poi, con la sua abitudine a compiacere gli ospiti, D’Annunzio la portò nella camera «spoglia e imbiancata a calce» dove scriveva. Lì, tra due rose, c’erano due fotografie, quella della madre di Gabriele e quella della Duse.