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 2013  febbraio 24 Domenica calendario

FOTO DI GRUPPO SENZA ECO [

Riflessioni intorno all’immagine collettiva sulla più importante avanguardia italiana a 50 anni esatti dalla sua fondazione] –
Dal momento che già loro di buon grado si sono nuovamente commemorati, qui volentieri commemoriamo anche noi gli scrittori del Gruppo 63, nel cinquantesimo anniversario della sua fondazione. Ho detto scrittori, avrei dovuto dire gruppo. Infatti il gruppo fu anzitutto gruppo e come tale ricorda e celebra modestamente se stesso, con articoli e a volte con libri, ogni decennio che passa: 1973, 1983, 1993, 2003 e infine ora, 2013.
Con il numero del primo febbraio scorso, il Venerdì di Repubblica ha proposto in copertina la foto del gruppo in alto, incorniciata e direi ridimensionata, mentre a buon diritto e a tutta pagina compare il famoso Umberto Eco in abito scuro che si aggiusta il nodo della cravatta con ironico ma motivato autocompiacimento. Il nostro autore e uomo di cultura oggi e da tre decenni più noto nel mondo, si mostra platealmente fuori gruppo e tuttavia campione del gruppo, suo più autorevole sostenitore e incontestabile esemplare: «Ce l’ho fatta, altroché se ce l’ho fatta! (sembra dire). Ora vediamo chi ha il coraggio di recriminare ancora e fare obiezioni».
Io non obietto. Loro, come tutti, hanno avuto grosso modo quello che meritavano, il tipo di lettori e il genere di stima che hanno avuto. Sono stati letti nel modo in cui meritavano di essere letti: con solerzia, ammirazione e scolastico timore di sbagliare: dato che loro non solo hanno scritto, ma hanno insegnato il come e il perché dovevano essere letti in quanto ultima e più adeguata parola in fatto di sincronia fra letteratura e storia. Non per caso furono avanguardia, imitando le già storiche avanguardie contemplate nei manuali di modernità. Furono anzi più nuovi ancora, furono neoavanguardia.
Ora cortesemente, dopo mezzo secolo, il tono è pacato, come deve essere quello di ogni festeggiato nella propria festa di compleanno. No, suggerisce Eco, non eravamo un gruppo d’avanguardia, ognuno era un individuo e tra un individuo e l’altro c’erano anche «abissali differenze». No, suggerisce Nanni Balestrini, il gruppo forse non è mai esistito, eccetera.
Ma anche la foto di gruppo, continuamente e anche qui riprodotta, qualcosa dice. Certo il gruppo era così numeroso, gremito, affollato che qualche differenza doveva esserci. Ma la cosa funzionò come funzionò perché si trattava di gruppo e la falange non abbassò mai la guardia ogni volta che si trattò di autodifesa. Come ogni avanguardia (Marinetti e futurismo, Breton e surrealismo in testa) c’era anche allora un’aria di movimento o di piccolo partito politico della letteratura e delle belle arti, che assegnava a se stesso il massimo insuperabile di coscienza storica. Tutti gli altri, necessariamente, erano retroguardie, marciavano indietro, appartenevano al passato, si attardavano, erano superati.
Se poi uno pensa a quello che è riuscito a combinare Eco con il suo Nome della rosa, c’è poco da scherzare. Niente ha successo come il successo, perché il successo non è un’idea, è un fatto e ai fatti non si obietta. Chi ha successo, delle ragioni del suo successo, con rispetto parlando, se ne frega. Lascia a chi non ce l’ha l’onore e l’onere di ragionarci sopra.
Ma in più, Eco ha avuto successo non smettendo un momento di ragionare e ragionarci sopra. Ha teorizzato sulla cultura e sul lettore di massa, ha studiato il fenomeno per anni, si è preparato, ha fatto lezioni su come leggere i suoi romanzi. Chi può accusarlo di essere una bestia da successo? È un filosofo, un semiologo e un produttore del proprio successo. Di se stesso ne sa più lui che chiunque altro. È il vero neoavanguardista e il meno ingenuo: prima di fare la cosa, era già il professore della cosa e la spiega ogni volta che la fa, in modo che per dovere scolastico tu debba ingoiarla. Non ti piacciono i miei romanzi? E io ti spiego perché non ti piacciono e perché, alla fine, hai torto: c’è in te qualcosa che non va e che resiste di fronte alla realtà di libri che tutti leggono e vogliono leggere, dovunque, nel mondo. È per questo che li scrivo come li scrivo. Il mondo se li aspetta, li vuole.
Da tempo Eco ha dimostrato di non avere bisogno del gruppo (e così Manganelli, Arbasino, Malerba). C’è poi Sanguineti, che forse ne aveva bisogno e forse no, ma ha fatto come se ne avesse bisogno, perché per lui tutta l’arte e la letteratura moderna esistevano e valevano solo se erano avanguardia. Fuori dell’avanguardia, il nulla.
Invece fuori dell’avanguardia c’era la modernità di tante solitudini: c’erano perfino Proust, Joyce, Kafka, Pirandello, Musil, Benn, Céline, Gadda, Faulkner, Montale, Borges, Beckett, tutti autori, si direbbe, con la fobia dei gruppi, tutti inguaribili solitari e a volte autolesionisti, che i loro salti acrobatici li hanno fatti senza rete né preliminari garanzie. E negli stessi anni del Gruppo 63 in Italia c’erano Pasolini e Calvino, Giudici e Zanzotto, Morante e Volponi, Sciascia e Parise, Sereni e Caproni, Raboni e Amelia Rosselli, non privi di coscienza storica.
Quella famosa foto del Gruppo 63 sempre ripubblicata, mi sembra eloquente, parla da sé. Ha un pregio e un difetto. Il pregio è che dice: vedete? siamo in tanti, perciò state attenti: nessuno di noi rappresenta soltanto se stesso, tutti insieme abbiamo il monopolio del presente. Il difetto è che dice anche: vedete? Abbiamo tutti una tremenda paura di stare soli, qualunque cosa ognuno di noi farà, la responsabilità sarà collettiva.
I difetti dell’idea di avanguardia già nel 1962 li aveva descritti bene Enzensberger, coetaneo di Sanguineti e di Eco nonché membro del Gruppo 47, da cui il Gruppo 63 derivò il nome. Lo scrittore tedesco prendeva di mira come invecchiate le categorie di "progressista" e "nuovo",l’idea di progresso unidirezionale delle arti, la volontà di essere vincenti abbracciando le "tendenze decisive", il credere "di avere il futuro in appalto", il clima di scientificità e laboratorio, l’esperimento-bluff che non distingue fra riuscita e fallimento, l’immunità morale di chi afferma di seguire il corso della storia.
Quando scrisse queste cose Enzensberger aveva 32 anni, era nuovo anche lui, ma evidentemente non voleva farne una bandiera. L’avanguardia italiana si è creduta insuperabile. Nel suo distintivo c’era scritto: noi siamo sempre giovani, anche chi verrà dopo, sarà vecchio.