Sergio Romano, Corriere della Sera 25/02/2013, 25 febbraio 2013
BENITO E ADOLFO, IL TEATRO DEI DITTATORI
Durante il viaggio di Mussolini in Germania nel 1937, i due dittatori attraversarono il Paese su due treni speciali. Per dimostrare al mondo quale legame unisse il padre del fascismo al padre del nazismo, Hitler volle che i loro treni, prima di entrare nelle stazioni, procedessero affiancati alla stessa velocità. Soltanto nell’ultimo tratto, per consentire al padrone di casa di accogliere l’ospite sulla banchina della stazione, quello del Führer sarebbe scattato in avanti con un colpo d’acceleratore. In tutti i loro incontri, se il mezzo di trasporto era il treno, bisognava che la carrozza dell’ospite si fermasse all’inizio del tappeto rosso là dove l’amico italiano attendeva l’amico tedesco, o viceversa. Tra l’apertura della porta della carrozza e la stretta di mano fra i due protagonisti dovevano passare soltanto alcuni secondi. Ed era imperativo, beninteso, che l’ora dell’arrivo fosse esattamente quella prevista dal protocollo. In una particolare circostanza, quando l’incontro ebbe luogo in Italia, Mussolini e la sua corte videro l’aereo di Hitler iniziare la discesa e risalire improvvisamente per compiere una larga curva al di sopra dell’aeroporto. Fu spiegato che senza quella manovra il Führer avrebbe messo piede sulla pista alle 8 e 57 del mattino con tre minuti di anticipo sull’ora fissata dal programma.
Il lettore troverà questo e altri particolari nel libro, apparso ora in Francia, che Pierre Milza, autore tra l’altro di una biografia di Mussolini, ha dedicato ai diciotto incontri fra i due dittatori, da quello di Stra nel giugno del 1934 a quello nella tana del lupo in Prussia orientale nel luglio del 1944 (Conversations Hitler-Mussolini 1934-1944).
Ancor prima di essere occasioni per scambi di vedute e intese politico-militari, gli incontri erano rappresentazioni teatrali organizzate con una precisione maniacale per impressionare e sbalordire. Quando arrivò a Monaco per il suo secondo incontro con Hitler nel settembre del 1937, Mussolini fu invitato a sfilare tra una doppia fila di busti di imperatori romani: personaggi storici che divenivano in tal modo, agli occhi della folla tedesca, i suoi predecessori. Gradì l’omaggio, ma il giorno dopo, su una spiaggia del Meclemburgo, dovette assistere a uno spettacolo che Filippo Anfuso, capo di Gabinetto di Galeazzo Ciano, definì «apocalittico»: una selva di cannoni e mitragliatrici che allo scoccare di un ordine cominciarono a lanciare i loro proiettili contro un cielo attraversato dalle scie verdi, rosse e azzurre di alcune centinaia di bersagli mobili. Schiacciato dallo spettacolo della forza militare del Terzo Reich, Mussolini segnò un punto, durante la visita di Hitler in Italia nel maggio del 1938, grazie a una parata della marina militare che andò in scena nel Golfo di Napoli con la partecipazione di duecento navi da battaglia e un «corpo di ballo» composto da 80 sottomarini che s’immersero contemporaneamente e insieme tornarono alla superficie. Hitler, secondo Anfuso, guardò lo spettacolo senza proferire parola, forse preoccupato e infastidito dalla perizia di una flotta italiana che godeva in quel momento di una eccellente reputazione.
Negli incontri analizzati da Milza vi è anzitutto la storia dell’alleanza italo-tedesca e della seconda guerra mondiale. L’autore ha lavorato sui processi verbali di Paul Schmidt, l’interprete preferito di Hitler, sulla documentazione preparata dalle due diplomazie alla vigilia degli incontri, sui diari dei protagonisti e sulle memorie scritte dopo la guerra da coloro che ebbero la fortuna di sopravvivere. Non vi sono colpi di scena e rivelazioni. Grazie alla grande biografia di Mussolini scritta da Renzo De Felice, a quelle di Hitler scritte da Joachim Fest e Ian Kershaw, agli studi sul tormentato periodo che precedette il conflitto e alla sterminata memorialistica sugli anni 30 e 40, abbiamo idee piuttosto chiare sul modo in cui i due dittatori entrarono in guerra e affrontarono il conflitto. Sappiamo che l’Italia era impreparata e che Mussolini ne era consapevole. Sappiamo che temeva l’avvento di un’Europa tedesca e che sperò di condurre una «guerra parallela» senza dipendere dalla benevolenza del Reich. Ma sappiamo anche che era dominato dal timore di non potere approfittare delle vittorie tedesche. Conosciamo bene ormai l’ingranaggio in cui il Duce del fascismo imprigionò se stesso. Nel ’39 proclamò la non belligeranza perché credette che il conflitto sarebbe stato lungo e l’Italia poteva permettersi di attendere nelle quinte. Nel ’40 dichiarò guerra a Francia e Gran Bretagna perché credette che sarebbe stata breve. Attaccò la Grecia perché voleva vantare una vittoria ottenuta senza l’aiuto dei tedeschi e fu costretto a implorarlo quando i greci contrattaccarono con grande energia. Attaccò gli inglesi in Egitto per fare dell’Africa settentrionale una provincia italiana e salvò la Libia, in quella occasione, soltanto ricorrendo ancora una volta all’aiuto del Paese da cui desiderava emanciparsi. Mandò un corpo di spedizione in Russia per acquistare un credito e finì per contrarre un nuovo debito. Raramente un uomo di Stato ha sbagliato tante scommesse nel corso di un periodo relativamente breve. Forse la scelta più sofferta e personalmente disinteressata di Mussolini fu quella di creare e presiedere la Repubblica Sociale. Sapeva che sarebbe stato un pupazzo nelle mani dell’«amico» tedesco, ma sperò di risparmiare all’Italia la sorte della Polonia.
Amico e amicizia sono le parole più frequentemente utilizzate negli incontri. Le strette di mano sono lunghe e affettuose. Le lacrime che scorrono sulle guance del Führer, soprattutto quando il Duce promette eterna amicizia, sono visibilmente sincere.
Oltre a un’impeccabile narrazione storica, il libro di Milza è l’esame psicologico di due contraddizioni. Mussolini diffida di Hitler. È stato freddo e scostante con l’ospite durante l’incontro di Stra e non esita a definirlo, anche negli anni seguenti, un pulcinella, un pazzo, una persona afflitta da ossessioni sessuali. Ma subisce il fascino della sua potenza militare e tollera pazientemente le convocazioni all’ultimo momento, le noiose analisi, il furore romantico delle sue filippiche, l’arroganza con cui l’amico tedesco lo mette di fronte al fatto compiuto. Hitler, dal canto suo, ammira Mussolini per il modo in cui ha conquistato il potere, non dimentica d’averlo considerato ispirazione e modello, continua a rendergli omaggi commossi. Ma diffida degli italiani, constata che la presa del Duce sull’Italia è limitata e precaria, lo tiranneggia con monologhi che possono durare più di un’ora e non permettono interruzione. Ma quando saluta Mussolini per l’ultima volta nella tana del lupo e porta ancora sul proprio corpo le tracce dell’attentato di von Stauffenberg, dice: «Vi prego di credermi quando vi dico che vi considero come il migliore e forse il solo amico che abbia avuto nella mia vita».
Sergio Romano