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 2013  febbraio 25 Lunedì calendario

SINGH, FINE DELLA CORSA “ORA TORNO A VIVERE”

Smettere di correre dopo aver pensato di smettere di vivere, l’esistenza di Fauja Singh è sempre andata al contrario. Uno che inizia a camminare a 10 anni, che decide di aspettare la fine a 81, che corre la prima maratona a 89 e partecipa all’ultima gara a 102 non è il tipo che rispetta la cronologia. O la logica. Fauja è l’uomo con il turbante e la barba lunga, in pochi conoscono il suo nome ma tanti sanno chi è: il maratoneta centenario, il sikh senza età.

Ieri a Hong Kong ha chiuso la carriera con una 10 chilometri: 1 ora, 32 minuti, 28 secondi e una folla che guardava solo lui, invitato speciale a uno strano party su strada: «Adesso basta, ero convinto che sarei crepato se avessi smesso di correre e prima di iniziare quest’avventura ero sicuro che non mi aspettasse altro che la morte. Ora non so cosa dice il mio destino, ma ho fatto tutti i chilometri che le mie gambe potevano reggere, mi fermo». La domanda più naturale sarebbe perché ha iniziato da ottuagenario, perché faticare con le ossa deboli e il fiato corto, solo che la risposta non è semplice: dietro c’è un dolore che lui non sa neanche più spiegare.

Fauja non è tanto magro perché ha sempre corso, è nato debole o almeno è così che lui spiega la malattia che gli ha rallentato lo sviluppo. Del resto nel villaggio di Beas Pind, nord est dell’India, dove è nato all’inizio del secolo scorso, non c’erano medici in grado di diagnosticare il problema. A cinque anni gattonava ancora, i muscoli non lo tenevano proprio su, a 8 anni si aggrappava al bastone e a 10 ha trovato le forze per restare dritto. Del resto i genitori dovevano aver percepito che il bimbo avrebbe dovuto lottare, gli anno dato un nome da combattente: Fauja significa soldato in punjabi. Non ha mai pensato allo sport, lui era il mingherlino, non giocava neppure con gli amici da ragazzo. È cresciuto sostenuto da uno spirito contemplativo, guardare invece di fare, e ancora si diverte a raccontare che con le sue osservazioni furbe ha conquistato la moglie Gian Kaur.

Un matrimonio da favola e sei figli, tre maschi e tre femmine, anche i numeri sono perfetti. I ragazzi crescono e si sparpagliano per il mondo, solo il penultimo, Kuldip, resta in India e aiuta Fauja anche a seppellire la compagna di una vita. Gian Kaur muore nel 1992, il marito ha 81 anni: «Ho parlato al mio ragazzo, gli ho detto di trovarsi un posto nel mondo perché io ero pronto a lasciarlo. Ero felice, appagato. Aspettavo sereno che arrivasse il mio momento». Solo che al suo posto muore Kuldip.

Una notte tutta sbagliata, la tempesta, le grandi piogge indiane e padre e figlio in mezzo alla strada con i cavi di metallo che girano agitati dal vento. Uno prende Kuldip in pieno, in pratica lo decapita anche se è difficile ricostruire. La storia arriva dall’allenatore di Fauja, lui non l’ha mai raccontata. Non la può dimenticare e non la vuole ricordare, l’unica cosa che dice è: «Era finita lì, ho smesso di mangiare, di parlare e di muovermi». Uno degli altri figli, spaventato, lo porta a Londra. Fauja non guarisce ma cambia. Inizia a camminare nei parchi, per ore: «Era come essere in contatto con Dio, più lontano andavo più il rancore evaporava. Così ho accelerato».

Il cambio di passo arriva con Harmander Singh, un tecnico alternativo, sikh come lui. Il primo giorno gli si presenta un vecchio in camicia: «Voleva correre così, pensava che non fosse elegante mettersi in tuta alla sua età». In sei mesi il bizzarro ottantanovenne diventa un maratoneta. La prima 42 chilometri è quella di casa, Londra. La corre a testa alta, la corre con il turbante che diventerà il suo simbolo e la chiude in 6 ore e 54 minuti, 4 ore e 48’ dopo il vincitore Antonio Pinto. Ma tra i due è l’indiano quello che guadagnerà di più. Dopo l’esordio inizia a ricevere richieste, ci sono corse che lo invitano, la Nike lo ingaggia per la campagna «Impossible is Nothing» e lo mette sui manifesti insieme con Beckham. Lui batte ogni record over 90, nel 2003, sempre a Londra, si migliora di 57 minuti e decide di rischiare: archiviata la gara in primavera si iscrive a New York, inizio autunno dello stesso anno. Dopo l’11 settembre 2001 i turbanti non sono ben visti in America, i sikh non hanno alcun legame con l’attentato alle Torri gemelle ma Fauja riceve ogni genere di insulto lungo il percorso. In più è stanco, si ferisce a un piede, deve fermarsi e farsi medicare, ogni metro sembra quello del crollo, in tanti lo pregano di arrendersi, l’ambulanza gli si mette dietro. Uno strazio e una vergogna proprio a New York dove il maratoneta centenario voleva diventare il riscatto degli indiani, pensava di sfoggiare il suo contestato turbante con un sorriso soddisfatto. Non cede, però una volta al traguardo collassa e non c’è niente di epico: «Volevo essere un esempio invece avevo fatto pena e ho promesso di non correre mai più».

L’allenatore lo convince ad aspettare, lo obbliga a riposare e nel 2004, Fauja è di nuovo per le strade di Londra, altra 42 chilometri e poi in volo per competere a Toronto spesato, sponsorizzato e coccolato come un campione. In tutto finisce nove maratone e manca il Guinness per un problema burocratico. È il più anziano maratoneta al mondo eppure non lo può provare perché non ha un certificato di nascita, solo una data: 1911. La conserva su vecchi fogli che non stanno più insieme, ce l’ha anche scritta sul passaporto e gli esperti hanno tentato ogni genere di ricerca per certificare l’impresa. Niente, l’India è rimasta sotto il dominio inglese fino al 1947, lo Stato non ha registrato alcuna nascita fino al 1964, la parola dei genitori era sufficiente per avere i documenti ma la parola di Fauja non basta per ottenere il primato. A lui non interessa, «lo so io quanti anni ho vissuto». E quanto ha corso: prima per scappare dalla sofferenza, poi per raggiungere Dio. Forse per questo ha continuato, convinto che fosse l’unico modo per passare a un’altra vita. Ha superato ogni limite, ora può riposare: «Ormai c’è tanta distanza tra me e la mia rabbia. Sono di nuovo sereno».